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Andria Pili – La rubrica – Antonio Gramsci e la questione sarda

In questa rubrica, ogni mese, tratterò un tema riguardante la questione sarda, innanzitutto il suo aspetto economico, da un punto di vista multidisciplinare e “militante”. Visto che oggi è l’anniversario della nascita di Antonio Gramsci, pensavo di inaugurare il mio spazio su questo blog scrivendo qualche parola sopra il suo pensiero sulla Sardegna e gli spunti che, a mio parere, le riflessioni del fondatore del PCI offrono a chi, oggi, vuole intraprendere una lotta sardista e indipendentista.


Innanzitutto, bisogna comprendere il contesto storico-economico del Gramsci sardo, nato ad Ales nel 1891 e giunto a Torino nel 1911. Gli anni’90 del XIX secolo sono stati particolarmente drammatici per l’isola, colpita dalla crisi agricola – dovuta alla guerra doganale con la Francia – e dalla crisi bancaria, che si riverberò nell’agricoltura e nelle piccole manifatture urbane. In questo decennio, i fallimenti per mancato pagamento delle imposte restrinsero il numero di proprietari terrieri, a causa dei debiti di imposta, dando alla Sardegna il primato della devoluzione di patrimoni. Inoltre, i pascoli per l’allevamento ovino ritornarono a prevalere sulle coltivazioni non solo per gli ovvi disincentivi ma anche su impulso dei caseifici laziali, stabilitisi nell’isola al fine di produrre pecorino romano diretto all’esportazione per gli emigrati italiani in America. Tale situazione aveva provocato ad una recrudescenza del banditismo, contro cui, nel 1899, fu inviato un reggimento al fine di reprimerlo, portando all’arresto di centinaia di persone. Il libro di Giulio Bechi, “Caccia Grossa”, racconta quell’episodio; Gramsci stroncherà quel libro carico di razzismo antisardo e atteggiamento coloniale (“i signori torinesi, la classe borghese di Torino, che ha seminato di lutti e rovine l’isola (…) facendo perseguitare dai carabinieri e dai soldati come cinghiali, per monti e valli, contadini e pastori sardi affamati”; “ha trattato la popolazione come negri”). Gli anni precedenti la Grande Guerra furono segnati da una ripresa economica. Essa dipese sia dall’avvento dell’industria molitoria e casearia che dagli effetti della legislazione speciale – in particolare la legge del 1907 – volta al miglioramento dell’agricoltura tramite opere di bonifica, bacini idroelettrici e sostegno al credito agrario. Tuttavia, tale parziale modernizzazione non fu priva di scontro; fu proprio durante la crisi sociale del 1906 che Gramsci pensò di “buttare a mare i continentali”. Lo storico Accardo (1996) spiega tali moti con l’effetto dell’integrazione della Sardegna nel mercato capitalistico italiano; indirettamente si saldarono gli interessi popolari di minatori-contadini-pastori contro i monopolisti che detenevano miniere, mulini e caseifici, paganti miseramente i produttori pur facendo profitti con l’export. Il carovita portò quindi a proteste popolari confuse, prive di una direzione consapevole.

In questo scorcio di storia economica troviamo molti temi che Gramsci approfondì nei suoi scritti sulla questione meridionale e la questione sarda; infatti, inquadrò quest’ultima entro lo sfruttamento capitalistico dell’isola da parte della borghesia settentrionale tutelata dal protezionismo. Esso era la chiave di volta della sua alleanza con gli agrari e favoriva lo sviluppo industriale del Nord quanto il mantenimento del Sud nel sottosviluppo. Interessante ricordare che, nel 1913, Gramsci si iscrisse alla Lega Antiprotezionista sarda di Attilio Deffenu. Inoltre, il pensatore sardo aveva notato la condizione sarda di colonia interna: su l’Avanti evidenziò la spoliazione fiscale a fronte di servizi inefficienti, i salari da fame pagati ai minatori a fronte dei profitti conseguiti dalle società minerarie(“I dolori della Sardegna”, 16 aprile 1919). In più, vide il ruolo del razzismo nel perpetuare la subalternità dell’isola; nel suo mirino vi furono gli autori dei principali studi antropologici sulla Sardegna di fine XIX secolo che considerarono la criminalità “tipica” isolana come espressione dell’inferiorità razziale del popolo sardo. Il razzismo antimeridionale era una giustificazione dello sfruttamento capitalistico, facendo del sottosviluppo una colpa dei meridionali e delle colpe dei meridionali le cause dei problemi dell’Italia, un ostacolo verso i suoi sogni di grandezza.

Qual era la soluzione proposta da Gramsci alla questione sarda? Il socialismo. Esso avrebbe espropriato i padroni inglesi dalle miniere, i padroni torinesi delle ferrovie, i padroni italiani dei caseifici per dare ai sardi la loro proprietà (“La Sardegna e il socialismo”, 13 luglio 1919). Ciò segna il suo netto distacco dai sardisti della sua epoca e dai pensatori sardi a lui precedenti. Al centro del pensiero gramsciano, infatti, sono poste le relazioni di classe a fondamento dello Stato anziché la sua mera forma politica; perciò vedeva necessaria, per i lavoratori sardi, un’alleanza di classe con operai e contadini continentali piuttosto che una generica opposizione interclassista e riformista alla politica governativa; un federalismo e internazionalismo socialista invece di una federazione tra regioni euromediterranee.

Che insegnamenti possono trarre sardisti e indipendentisti da Gramsci? A mio parere, che il conflitto sociale interno alla Sardegna sia inscindibile dal conflitto esterno. L’emancipazione sarda avverrà in relazione a quanto accade sia in Sardegna che negli altri contesti in cui la nostra isola è inserita. Perciò, entro e fuori dall’isola, è necessaria una politica delle alleanze coerente con un progetto realmente emancipativo, contro l’oligarchia sarda e in raccordo con forze antagoniste nello Stato e in Europa. L’indipendentismo sardo non può racchiudersi in un mero nazionalismo. Il conflitto sociale, partendo dalla comprensione del contesto di subalternità della Sardegna, dovrebbe essere la sua bussola per impedire che si diriga verso l’identitarismo e il rivendicazionismo etnoculturale o che diventi la casa di trasformisti, membri del ceto politico in cerca di una ridefinizione.

Ritengo che l’approfondimento dell’economia sarda sia essenziale per capire le ragioni del nostro sottosviluppo, le sue giustificazioni ideologiche, il ruolo svolto in esso dalle istituzioni e dai rapporti di forza sociali vigenti in Sardegna e in Italia. In questo spazio spero di poter dare un piccolo contributo.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Su Gramsci e la Sardegna:

“Antonio Gramsci e la Questione Sarda”, a cura di Guido Melis, Edizioni Della Torre (1975)

Sul periodo storico-economico su richiamato:

Aldo Accardo, “Cagliari”, Laterza (1996)

Francesco Atzeni, “Riformismo e modernizzazione. Classe dirigente e questione sarda tra Ottocento e Novecento”, FrancoAngeli (2000)

Giulio Bechi, “Caccia Grossa”, con prefazione di Manlio Brigaglia, Ilisso (1997).

Maria Luisa Di Felice, “La storia economica dalla fusione perfetta alla legislazione speciale (1847-1905)”, in “La Sardegna – le Regioni dall’Unità d’Italia ad oggi”, Einaudi (1998)

Gian Giacomo Ortu, “Tra Piemonte e Italia. La Sardegna in età liberale (1848-1896)” in “La Sardegna – Le regioni dall’Unità ad oggi”, Einaudi (1998)

Gianfranco Tore, “Politica, agricoltura e bonifiche nella Sardegna post unitaria”, in “Francesco Cocco Ortu. Nel centenario del testo unico del 1907 sulla legislazione speciale per la Sardegna”. AM&D (2008)