Il capolinea dell’autonomia, tra sentenze della Corte Costituzionale e impugnative del Governo
Sardegna chiama Sardegna ha chiesto, ai componenti del proprio Comitato Promotore, di ragionare sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 192/2024, relative alla impugnazione della L. 86/2024, la legge sull’autonomia differenziata.
Nel frattempo, è arrivata la novità dell’impugnazione, da parte del governo italiano, della legge regionale (LR) n. 20/2024, vale a dire “Misure urgenti per l’individuazione di aree e superfici idonee e non idonee all’installazione e promozione di impianti a fonti di energia rinnovabile (FER) e per la semplificazione dei procedimenti autorizzativi”, e cioè l’unica vera legge importante finora varata nella legislatura che sta per concludere il suo primo anno di attività, cioè il 20% della sua vita[1].
Di cosa discutiamo, quindi, alla luce di questi due atti giuridici, che hanno natura diversa e che, però, per ragioni politiche, esamineremo insieme?
Si impone l’obbligo di discutere della autonomia al suo capolinea, la quale deve essere ripensata e ricontrattata, alla luce delle priorità dell’oggi.
Con la sentenza e con l’impugnazione citata, infatti, gli apparati di stato romani hanno chiarito che non è possibile ragionare sull’autogoverno della Sardegna su questioni centrali per il nostro territorio e benessere. Prima se ne prende atto, se se ne vuole prendere atto, prima si tirano le conseguenze.
La sentenza 192/2024
La sentenza 192/2024 tratta del giudizio di legittimità costituzionale della L. 86/2024 (Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione).
Il giudizio avviene a seguito di ricorsi presentati dalla Regione Puglia, dalla Regione Toscana, dalla Regione Campania e dalla Regione Sardegna. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha difeso la legge, e sono intervenuti, a sua difesa, anche le Regioni Veneto, Piemonte e Lombardia.
La legge stabiliva le modalità di attuazione della autonomia differenziata, così come prevista dall’art. 116, comma 3, della Costituzione.
Così come già segnalato da Sardegna chiama Sardegna[2], e da molti altri commentatori, lungi dal realizzare uno stato federale che segnasse una discontinuità rispetto ai nefasti processi economici innescatisi negli ultimi decenni, la L. 86/2024 avrebbe cristallizzato e peggiorato rapporti di forza esistenti, tra diverse aree dello stato italiano, e non avrebbe risolto alla radice nessuno dei problemi di lungo periodo dell’insieme di quei stessi territori, rinviando per qualche anno il tracollo di un sistema economico che, allo stato attuale, dipende molto dalle economie di Germania e resto del mondo, e che internamente non ha alcuna dinamica positiva.
Abbiamo, quindi, contrastato la L. 86/2024 ma, non per questo, è bene chiudere gli occhi rispetto ad alcuni contenuti della sentenza della Corte che, se esaminati in combinato disposto con l’impugnativa citata, ed il contesto istituzionale, rende la postura dello Stato italiano verso l’autonomia sarda completamente oppositiva.
I contenuti della sentenza sono noti. La legge non è stata dichiarata completamente incostituzionale, però ne sono dichiarati incostituzionali i capisaldi.
La legge non può delegare materie, ma solo alcune funzioni, ed a condizioni che sono specificate nella sentenza stessa. In alcuni settori questo è particolarmente difficile, per esempio nel settore dell’istruzione.
I LEP (livelli essenziali delle prestazioni) non possono essere stabiliti, come stabiliva la legge, con procedure semplificate che, nei fatti, scavalcavano il parlamento.
Il senso di questo contributo è capire quale effetto ha per l’autonomia sarda questa sentenza.
In primo luogo, la sentenza stabilisce che l’art. 116, comma 3 della Costituzione, non può valere per le regioni a Statuto Speciale. La Regione Sardegna, se vuole ridiscutere sui propri poteri con lo Stato, lo deve fare modificando lo Statuto, o utilizzando le norme di attuazione. In ogni caso, non può usare l’art. 116, comma 3.
La Regione Sardegna ha partecipato, alla fine, al procedimento come soggetto terzo.
Da questo ne consegue un appesantimento della possibilità di acquisire nuovi poteri, ed anche la possibilità, ma non la certezza, che, in una eventuale riforma dello Statuto, altre regioni possano adire la Corte Costituzionale, in quanto “soggetti terzi”, per chiedere di verificare se la modifica dello Statuto sia aderente alla Costituzione oppure no[3].
Nel traballante sistema istituzionale italiano, lo potrebbero fare anche come mera azione di contrapposizione politica.
La sentenza, quindi, potrebbe apparire esterna rispetto al sistema giuridico sardo.
Ma non è così. Da una parte perché la Regione stessa ha avuto un ruolo nel chiedere il giudizio alla Corte. Dall’altra sia perché contiene affermazioni meta-giuridiche estremamente importanti, sia perché modifica il contesto giuridico italiano in tema di devoluzione dei poteri.
Innanzitutto si stabilisce nuovamente che non esistono i popoli regionali, che in ogni caso non avrebbero alcuna porzione di sovranità, e che la nazione è una e non modificabile[4]. Si dà forza giuridica a concetti politologici.
Il Parlamento, oltre la competenza legislativa esclusiva in alcune materie, ha compiti unificanti nei confronti del pluralismo regionale, che si esplica mediante le “materie trasversali” e la “perequazione finanziaria”.
Il principio di sussidiarietà viene declinato non quale strumento per valorizzare l’autogoverno e la partecipazione popolare, bensì come strumento giuridico, intrinsecamente flessibile, che permette di allocare nel luogo “più efficiente”, nella catena istituzionale, una determinata funzione[5].
Quale sia il luogo “più efficiente” dipende da un insieme di fattori, non neutri.
Sul tema sussidiarietà ed energia la Corte è abbastanza decisa. La possibilità di trasferimento non è esclusa a priori, ma tutto viene definito “difficilmente giustificabile”, e la materia energia, insieme a quella istruzione, viene esplicitamente trattata:
“Questa Corte non può esimersi dal rilevare che vi sono delle materie, cui pure si riferisce l’art. 116, terzo comma, Cost., alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà. Vi sono, infatti, motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico, che ne precludono il trasferimento. Con riguardo a tali funzioni, l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, perciò, particolarmente gravoso e complesso. Pertanto, le leggi di differenziazione che contemplassero funzioni concernenti le suddette materie potranno essere sottoposte ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale.
Inoltre, il fatto che l’art. 116, terzo comma, Cost. contempli, tra l’altro, le funzioni concernenti dette materie non implica che in esse vengano meno gli stringenti vincoli derivanti dalle altre materie trasversali o dall’ordinamento unionale o dai vincoli internazionali, che si sono rafforzati a seguito dei cambiamenti che hanno investito settori rilevantissimi della vita politica, economica e sociale: dalle due rivoluzioni tecnologiche “gemelle”, la digitale e l’energetica, che hanno determinato trasformazioni dirompenti nell’economia, nella società e di conseguenza anche nel sistema giuridico, alle tensioni che hanno investito
l’ordine mondiale innescando la sua modificazione, con conseguenze imponenti di ordine strutturale che
coinvolgono direttamente alcune delle materie considerate (dal commercio estero all’energia).
Quanto detto non preclude, a priori, anche in queste materie la possibilità del trasferimento di alcune funzioni, ma questo deve trovare una più stringente giustificazione in relazione al contesto, alle esigenze di differenziazione, alla possibilità da parte delle regioni di dare attuazione al diritto unionale. […]
Ancora più marcati sono gli ostacoli al trasferimento di funzioni, in particolare di quelle legislative, concernenti la materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». Si tratta, infatti, di una materia disciplinata dal diritto eurounionale in funzione della realizzazione del mercato interno dell’energia, della tutela del consumatore e della sicurezza energetica. A tal fine la disciplina eurounitaria si occupa dettagliatamente della generazione di energia, delle reti di trasmissione, delle reti di distribuzione e della vendita al consumatore, in modo da realizzare un mercato effettivamente aperto, in cui deve impedirsi che un operatore verticalmente integrato possa discriminare l’accesso alla rete da parte di operatori concorrenti o sfruttare informazioni commercialmente sensibili“.
Per concludere velocemente questa parte, riservandosi di approfondirla ulteriormente, la sentenza demolisce alcuni pilastri fondamentali della legge 86/2024, ma non ne sancisce la incostituzionalità. Sta al Parlamento riscriverla.
La sentenza ci obbliga a rilanciare in ottica italiana, su basi nuove, la proposta di un federalismo solidale, che riprenda la legge sul federalismo fiscale del 2009, e che passi per una ridiscussione complessiva degli attuali assetti istituzionali, e non solo, che non servono né al sud né al nord.
Per la Regione Autonoma della Sardegna, bisogna approfondire la priorità della “Riforma dello Statuto”, posta dalla attuale Giunta quale una delle priorità della legislatura, alla luce della sentenza citata ed anche della impugnativa sulla unica legge importante finora approvata in questa legislatura, la 20/24. Vediamola.
Impugnativa della LR 20/2024
Per il governo la legge regionale citata si pone in contrasto con la
“la normativa statale di riferimento che detta i principi fondamentali, vincolanti per le Regioni, in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», violando quindi l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
Poiché la disciplina statale di riferimento è di derivazione eurounitaria, si evidenzia, altresì, la violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Viene frontalmente attaccata, nella impugnativa, anche la competenza esclusiva in materia di “edilizia e urbanistica”, che lo Statuto speciale attribuisce alla Regione Sardegna.
“la Corte ha rimarcato peraltro che, in ogni caso, le norme fondamentali statali emanate in materia continuano ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia edilizia e urbanistica.
Alla stregua dei suddetti principi, è evidente che la Regione Sardegna non ha una competenza normativa primaria in materia di tutela dei beni paesaggistici (non prevista dallo Statuto), ma ha piuttosto competenza in ordine all’elaborazione del Piano paesaggistico, limitata a quella componente di pianificazione che può astrattamente essere ricondotta alla pianificazione urbanistico-edilizia, e perciò alla materia di competenza primaria che deve essere esercitata nei limiti derivanti dai “principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica”, nonché nel “rispetto degli obblighi internazionali” e delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali”.
Nel caso in esame le disposizioni censurate esorbitano dalle prerogative statutarie in ragione della violazione di principi stabiliti con legge dello Stato e delle norme fondamentali di riforma economico-sociale che si impongono anche alle autonome speciali per espressa previsione statutaria”.
L’impugnativa compirà il suo iter. Stante l’attuale contesto istituzionale, è probabile che la norma venga cassata. Sarebbe stata cassata anche la cosiddetta “Pratobello 24”.
Ciò non toglie che sia l’una che l’altra avrebbero posto il punto della volontà della Regione Sardegna di decidere sul proprio destino.
Qualche prima conclusione
Le dinamiche internazionali ed il premierato indicano una prospettiva centralistica ed antidemocratica per l’Italia. L’autonomia differenziata, che non affronta nodi strutturali di una riforma in senso democratico e federalistico dello Stato (questione meridionale, federalismo fiscale e diritti, composizione della Corte Costituzionale, Senato delle Regioni, diritti delle minoranze linguistiche), è un provvedimento che punta a cristallizzare alcuni vantaggi economici oggi esistenti in alcune regioni, le quali stanno affondando per via del loro essere fondamentalmente contoterzisti di un’area in difficoltà strutturale (Germania).
La Regione Sardegna, tutta, al di là della maggioranza, rischia di buttare via l’ennesima legislatura, mentre il mondo corre, e di subire una nuova colonizzazione, quella energetica.
La LR 20/2024, l’unica importante finora approvata, è a rischio dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Bisogna reagire ora, prepararsi.
La maggioranza ha sbagliato a non ascoltare 210.000 sardi che hanno firmato la Pratobello 24 (altro che “è il tempo del noi”).
Ora bisogna ripartire. L’unica via appare annodare l’insieme delle crisi sarde e portarle ad un livello più alto, e su questo chiamare alla mobilitazione, oltre che agire a livello legislativo (norme di attuazione dello statuto, nuovo statuto, leggi di settore) e di esecutivo.
[1] Le poche righe che si presentano sono provvisorie riflessioni di chi non è un giurista di professione, consapevole che sia necessario affrontare da un punto di vista squisitamente politico la questione, posto che siamo convinti, in molti, che dalla qualità della nostra autonomia, cioè della nostra possibilità e capacità di autogoverno, derivi la unica possibilità di dare un futuro decente a chi in Sardegna vive e vuole continuare a vivere, in quanto gli attuali rapporti di forza, con l’Italia e la UE e gli USA ci vedono in ruolo di sostanziale subalternità di tipo coloniale.
[2] https://jacobinitalia.it/contro-la-legge-calderoli-oltre-il-centralismo/
[3] “I limiti posti dall’art. 116, terzo comma, Cost. alle leggi di differenziazione concorrono a configurare lo costituzionale delle regioni “terze”, nel senso che la violazione di quei limiti, status traducendosi in uno speciale regime favorevole per una determinata regione, viola di per sé la par condicio fra regioni, ed è innegabile che il principio di pari trattamento fra regioni compone la loro posizione costituzionale, rivendicabile contro le leggi statali che lo violino. Dunque, da un lato, le regioni “terze” potranno reagire contro leggi statali che rafforzino l’autonomia di una determinata regione oltre quanto consentito dall’art. 116, terzo comma, Cost. (supra, punto 4.3.), dall’altro le regioni sono legittimate a contestare anche la legge generale in esame, se ritengono che essa indirizzi l’attuazione del regionalismo differenziato in modo da superare i confini posti dalla suddetta norma costituzionale. Tale legittimazione risulta dal combinato disposto degli artt. 5, 114, secondo comma, e 116, terzo comma, Cost”.
[4] “Al tempo stesso, la Costituzione definisce la Repubblica come «una e indivisibile» (così il medesimo art. 5 Cost.). L’unità e indivisibilità della Repubblica si fondano sul riconoscimento dell’unità del popolo, a cui l’art. 1, secondo comma, Cost. attribuisce la titolarità della sovranità. La Costituzione riconosce e garantisce pienamente il pluralismo politico (artt. 48 e 49 Cost.), sociale (artt. 2, 17, 18, 39, 118, quarto comma, Cost.), culturale (artt. 9, primo comma, 21, 33, primo comma, Cost.), religioso (artt. 8 e 19 Cost.), scolastico (art. 33, terzo comma, Cost.), della sfera economica (art. 41 Cost.). Tuttavia, tale accentuato pluralismo, che si riflette anche sul piano istituzionale (artt. 5 e 114 Cost.), non porta alla evaporazione della nozione unitaria di popolo. La nostra democrazia costituzionale si basa sulla compresenza e sulla dialettica di pluralismo e unità, che può essere mantenuta solamente se le molteplici formazioni politiche e sociali e le singole persone, in cui si articola il “popolo come molteplicità”, convergono su un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva. In essa confluiscono la storia e l’appartenenza a una comune civiltà, che si rispecchiano nei principi fondamentali della Costituzione. A tutto ciò si riferisce la stessa Costituzione quando richiama il concetto di “Nazione” (artt. 9, 67 e 98 Cost.). Il popolo e la nazione sono unità non frammentabili. Esiste una sola nazione così come vi è solamente un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei “popoli regionali” che siano titolari di una porzione di sovranità (sentenza n. 365 del 2007). L’unità del popolo e della nazione postula l’unicità della rappresentanza politica nazionale. Sul piano istituzionale, questa stessa rappresentanza e la conseguenziale cura delle esigenze unitarie sono affidate esclusivamente al Parlamento e in nessun caso possono essere riferite ai consigli regionali (sentenza n. 106 del 2002).
Le pur rilevanti modifiche introdotte nel 2001 con la riforma costituzionale del Titolo V non permettono di individuare «una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali» (sentenza n. 365 del 2007)”.
[5] Questa visione tecnocratica della sussidiarietà, in realtà, è presente da molto negli orientamenti e nelle decisioni della Corte, almeno a partire dalla cosiddetta sentenza Mezzanotte, del 2003.