L'importanza del linguaggio

L’importanza del linguaggio – di Alessandra Fantinel

Il ricordo più vivo che ho della Scuola Media (oggi chiamata Scuola Secondaria di Primo Grado) e delle lezioni di italiano è l’analisi grammaticale. Ricordo l’importanza che la mia insegnante attribuiva a questa attività: uno dei primi concetti che ho acquisito è che la lingua italiana non presenta un genere neutro, ogni elemento deve essere ricondotto ad un maschile ed un femminile. Questo non significa che la nostra lingua sia sessista bensì che alcune parole nascono al maschile ed altre al femminile. Tra l’altro la nostra è una lingua in continua evoluzione.

Sembra un concetto semplice ma molto difficile da applicare.

Alcuni mesi fa mi trovavo a Mestre e per caso ho partecipato ad un evento dal titolo “Dritti sui diritti. Una città a misura di bambini e ragazzi”. Si parlava di argomenti interessanti come l’affido e l’adozione. L’occhio mi è caduto sul sottotitolo. Ho chiesto ad una delle organizzatrici del perché l’evento avesse quel sottotitolo e lei, un po’ imbarazzata, mi rispose che interessava entrambi i generi in quanto con “bambini e ragazzi” si comprendevano maschi e femmine. Non soddisfatta della risposta, ma non interessata ad iniziare una discussione linguistica, ho incassato il colpo. Mi imbatto poi in un bellissimo disegno: una bambina indicava “da grande farò il pilota”….. Forse non avevo capito bene la questione ma il disegno è stato esaustivo. In italiano la parola pilota è usata per il maschile e il femminile ma ciò che indica l’appartenenza al genere è l’articolo che precede il sostantivo.

Perché per denominare un gruppo costituito da maschi e femmine si utilizza il maschile plurale? Per esempio in un ufficio alla presenza di uomini e donne ci si rivolge definendoli “colleghi” (ed entrambi i generi dovrebbero sentirsi rappresentati) mentre se si parla di “colleghe” le destinatarie sono solamente le donne? Ho provato a fare un esperimento con bambini e bambine prescolarizzati/e (che dovrebbero avere poche sovrastrutture in termini di cultura di genere): li ho chiamati “bambini” e tutti/e hanno risposto al richiamo. Ho provato con “bambine” e solo le femmine hanno risposto al richiamo e un maschio mi ha detto: “Io non sono una femmina!”.

Quindi il concetto di neutro vale solo se usiamo sostantivi maschili: perché non può essere utilizzato indistintamente per il maschile e il femminile? Dietro un lavoro ipoteticamente “neutro”, in realtà, si nasconde una consuetudine: non nominare significa non riconoscere un ruolo, un incarico, una posizione.

O come scrivono Benedetta Pintus e Beatrice Da Vela nel loro interessante lavoro dal titolo “Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista” pubblicato lo scorso anno (ne consiglio la lettura):“Crediamo (dicono le autrici) infatti che la questione del linguaggio non sia secondaria bensì prioritaria, perché non nominare una soggettività significa tentare di cancellarne la stessa esistenza”.

Il linguaggio di genere non è solo un aspetto formale della lingua italiana, connota identità e valori della società che la utilizza e ne influenza il modo di pensare, interpretare e rappresentare la realtà. Le espressioni linguistiche di uso comune nascondono stereotipi e pregiudizi sociali, culturali e sessuali, che sono poi trasmessi spesso in maniera inconsapevole. La prevalenza del genere maschile nella lingua italiana riflette infatti lo squilibrio di potere ancora esistente nella nostra società: la declinazione al maschile della maggioranza delle professioni, dei ruoli lavorativi e degli incarichi pubblici è dovuta alle limitazioni culturali e sociali nell’accesso agli stessi da parte delle donne. Per garantire pari opportunità occorre riconoscere e valorizzare le differenze di genere proprio a partire dal linguaggio.

Il linguaggio deve essere il volano: dobbiamo attribuirgli un ruolo strategico per dare “visibilità” alle donne e per poter proseguire sulla strada dei diritti e del progresso culturale.

Non neghiamo che il percorso di affermazione della donna nella società abbia compiuto grandi passi avanti ma il traguardo è ancora lontano. Non è da tanto che nel linguaggio comune si utilizzano le parole, proprie della lingua italiana, quali sindaca, assessora, ingegnera, arbitra, avvocata, ecc. ossia professioni che in passato erano di esclusiva connotazione maschile.

Vorrei porre l’attenzione sul sostantivo sindac*: è la prima parola che mi viene in mente quando penso al processo di evoluzione e di valorizzazione del linguaggio di genere.

Quando Letizia Moratti fu eletta sindaca di Milano, stiamo parlando del periodo 2006-2011, nessuno la chiamava sindaca ma sindaco. Se provate a digitare su Google vi apparirà “Letizia Moratti sindaco” e su Wikipedia leggerete: Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, vedova Moratti (…), è una politica e manager italiana. È stata la prima donna a essere nominata presidente della RAI e la prima donna a essere eletta sindaco di Milano.

Oggi il sostantivo femminile sindaca è comunemente utilizzato, ma non diamolo per scontato: lo stereotipo, ma soprattutto l’errore grammaticale, è ancora diffuso. Vi invito a guardare un famoso cartone animato, Paw Patrol, che quotidianamente viene trasmesso in un canale kids: uno dei personaggi è una sindaca che chiamano “il sindaco”.

Quindi risulta necessario fare attenzione all’uso del linguaggio di genere, non accettare passivamente l’utilizzo di termini apparentemente neutri, solo così possiamo pensare di superare le rappresentazioni stereotipate di ruoli e professioni legate ai ruoli tradizionali.

E’ urgente e necessario un rinnovamento della lingua e della cultura e la pubblica amministrazione deve svolgere un ruolo propulsivo; deve dare il buon esempio con la redazione di documenti e atti, nel rispetto del linguaggio di genere. Non vogliamo più leggere “il sottoscritto” o sentir parlare “del dipendente”, “del collega”, “dell’assessore”, “dell’impiegato amministrativo”, ecc….: ogni soggettività dev’essere degnamente rappresentata.

Fortunatamente in moltissime pubbliche amministrazioni si sta mettendo mano a questa stortura. Sono le donne che rivestono ruoli politici a richiedere l’utilizzo di termini appropriati, così come ci si sta orientando per uniformare documenti, manuali e regolamenti.

Certo la vera rivoluzione va oltre il linguaggio di genere, valorizza e rispetta anche coloro che non si identificano in un genere o nell’altro. Sarebbe opportuno, laddove è possibile, evitare di indicare uomo e donna ma genere umano o persona o comunque sostantivi, di cui la nostra lingua è ricca, che esprimono ed includono indistintamente tutt*. Il percorso è ancora lungo, la volontà di cambiare è tanta, dobbiamo alimentarla.

1 comments On L’importanza del linguaggio – di Alessandra Fantinel

Comments are closed.