Gavino Santucciu è un bravo storico, che ha studiato le lotte per la casa del dopo guerra a Cagliari. Ha cominciato a colmare un vuoto, quello relativo alla storia dei subalterni nella capitale della Sardegna. Sono onorato che oggi cominci, con un articolo metodologico, la sua rubrica.
Sull’uso pubblico della storia. Alcune riflessioni introduttive.
Nel 1995 lo storico italiano Nicola Gallerano definiva uso pubblico della storia “tutto ciò che si svolge fuori dai luoghi deputati della ricerca scientifica in senso stretto, della storia degli storici, che è invece scritta di norma per gli addetti ai lavori e un segmento molto ristretto del pubblico”[1]. Fanno uso pubblico della storia non solo i mezzi di comunicazione di massa come giornali, radio, tv, cinema e teatro, ma anche la scuola, gli spazi urbani, i musei e i monumenti. A questa attività si dedicano anche gruppi religiosi ed etnici, associazioni culturali e partiti politici[2].
L’espressione è stata coniata nel 1986 da Jurgen Habermas nel saggio “L’uso pubblico della storia”, contenuto nel libro curato da Gian Enrico Rusconi “Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca”. Il sociologo, intervenendo in un dibattito tra storici tedeschi sul nazismo, operava una netta distinzione tra la storia studiata in ambito scientifico, dagli “addetti ai lavori”, e quella diffusa dai mass media, invitando a diffidare da quest’ultima perché, proponendosi obiettivi pedagogici espliciti e rivolgendosi ad un uditorio ampio e composito, poteva essere maggiormente esposta a manipolazioni e falsità.
Nonostante l’opposizione di Habermas, però, la storia ha sempre avuto la necessità di arrivare al maggior numero di persone.
L’uso pubblico della storia è collegato con le memorie personali, individuali e collettive. Attraverso di esso si definisce ciò che è degno di essere ricordato e ciò che invece deve essere dimenticato. In questo senso, il processo assume un nesso contradditorio con l’attività politica. Nicole Loraux osservava che nella Grecia Classica la politica cominciava con la fine della memoria e delle sue divisioni: per il bene della comunità, era necessario che i cittadini dimenticassero i conflitti del passato[3].
La memoria pubblica non è un deposito fisso e invariabile ma una costruzione sociale, vero e proprio terreno di lotta tra soggetti politici e sociali depositari di memorie differenti. Il gruppo che esce vincitore da questa lotta decide cosa può essere ricordato e cosa invece debba essere dimenticato. In questo modo, otterrà il duplice scopo di legittimare il proprio potere nel presente e nel futuro e di plasmare le caratteristiche distintive di una comunità.
Il caso italiano è, in questo senso, esemplare.
Giornalisti della televisione e della carta stampata, ma anche storici di professione, hanno contribuito a banalizzare e semplificare le vicende politiche che hanno attraversato gli anni ’70. Sotto l’etichetta di “anni di piombo” sono state volontariamente dimenticate le memorie collettive e individuali di tutti coloro che hanno attraversato i movimenti sociali e politici attivi in quegli anni, in particolare gli appartenenti ai ceti subalterni della società italiana, le loro richieste e i loro bisogni. La rilettura “ufficiale” di quegli anni ha completamente rimosso la carica propositiva e innovatrice di quel decennio, la cui conseguenza più immediata è stata la crescita sociale e culturale della società italiana nel suo complesso, contrassegnata anche dalla promulgazione di alcune leggi molto importanti per la storia d’Italia: lo Statuto dei Lavoratori, la legge sul divorzio, la legge sull’aborto. Questa interpretazione pubblica di quegli anni ha effetti diretti sul presente: la costruzione di una storia italiana condivisa e pacificata, l’educazione dei cittadini ai valori dell’ideologia liberaldemocratica, il tentativo di bloccare qualunque spinta contestatrice e riformatrice dell’attuale sistema economico e politico. In questo modo la storia diventa solo un mezzo attraverso cui formare la coscienza civile nazionale.
Questa interpretazione della storia ha avuto effetti importanti anche sulla memoria pubblica dei fatti e degli avvenimenti succedutisi in Sardegna.
Ad esempio a Cagliari la narrazione dominante riguardanti i processi urbanistici e edilizi ha sempre posto in primo piano il ruolo fondamentale e l’egemonia esercitata dalla grande imprenditoria. Si è completamente persa la memoria dei processi di lotta che tra gli anni ’60 e ’80 si sono opposti a questa egemonia, chiedendo e imponendo un aumento dei servizi nei quartieri popolari, il miglioramento della situazione abitativa e una città più vivibile per chi vi abitava.
È necessario, invece, soprattutto in Sardegna, riportare al centro della storiografia quelle memorie rese marginali o addirittura dimenticate dalle attuali interpretazioni ufficiali della storia, far conoscere fatti, episodi, protagonisti, processi di socialità alternativa e ideologie oggi rimosse. Attivare processi di ricerca che siano precisi, rigorosi e privi di forzature ideologiche, fondamentali per la comprensione dei processi storici e in grado di rivolgersi al maggior numero di persone, non solo alla ristretta cerchia degli amici o dei compagni, la cui presenza è sempre rassicurante ma non può bastare.
È questo il significato della rubrica.
Nei prossimi mesi avremo modo di
conoscere alcune storie della città di Cagliari riguardanti, in particolare, i
movimenti di lotta per la casa, i Comitati di quartiere, i processi urbanistici
e edilizi cittadini, le scelte delle varie amministrazioni comunali, alcuni
episodi storici molto significativi.
[1] Nicola Gallerano, L’uso pubblico della storia, F. Angeli, Milano, 1995, p.17.
[2] Ibidem
[3] Idem, cfr. pag. 28.