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Modello asiatico e neoliberismo – La penetrazione di Pechino nei paesi africani preoccupa l’Occidente

March 17th, 2011  |  Published in Cina, Mondo

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Il primo viaggio di Hu Jintao nel 2009 è stato in Africa. Dal 10 al 17 febbraio ha visitato il Mali, il Senegal, la Tanzania e le Mauritius, oltre che l’Arabia Saudita. È il quarto tour africano per il presidente della Repubblica Popolare Cinese, in carica dal 2003. In ogni capitale sono stati firmati una miriade di accordi commerciali e di cooperazione con organizzazioni pubbliche e private.

Ogni anno il primo viaggio all’estero del Ministro degli Affari Esteri, Yang Jiechi, è in Africa. Quest’anno il capo della diplomazia cinese ha visitato Uganda, Rwanda, Malawi e Sud Africa.

Sia Hu che Yang hanno dichiarato di voler rispettare gli impegni assunti al Terzo incontro a livello ministeriale del Forum sulla cooperazione sino-africana del 4-5 novembre 2006. A Pechino si riunirono 48 capi di stato africani. In quella occasione la Cina si impegnò:

– a raddoppiare l’aiuto pubblico allo sviluppo all’Africa entro il 2009;

– a fornire 3 miliardi di dollari di prestiti e 2 miliardi di crediti ai compratori a condizioni favorevoli;

– a costituire un fondo di sviluppo sino-africano di 5 miliardi di dollari che incoraggiasse le imprese cinesi a investire in Africa;

– a costruire un centro conferenze per l’Unione Africana;

– a cancellare il debito maturato al 2005 ai paesi altamente indebitati che hanno relazioni diplomatiche con la Cina;

– ad aprire il mercato cinese ai prodotti africani aumentando da 190 a 440 il numero dei beni non soggetti ad alcuna tariffa;

– a stabilire da 3 a 5 zone economiche speciali in Africa;

– a formare 15.000 professionisti africani e a impegnarsi a fondo nel settore della cooperazione educativa.

In Egitto, nell’ultimo trimestre del 2009, si terrà il quarto incontro del Forum. Nessuno dubita che, per quella data, l’Impero di Mezzo avrà rispettato gli impegni.

L’altro impegno, già superato, era di arrivare a scambiare 100 miliardi di dollari entro il 2010. Erano 10 nel 2000. Tra il 2007 ed il 2008 il commercio tra Africa e Cina è aumentato del 45%. Il volume complessivo degli scambi è stato di 106 miliardi di dollari. Siamo ai livelli di Stati Uniti e Unione Europea.

Le importazioni dall’Africa verso la Cina tra il 2007 ed il 2008 sono aumentate del 54%, mentre le esportazioni dalla Cina verso l’Africa sono aumentate solamente del 36%. L’82% delle importazioni cinesi sono minerali. Le importazioni in Africa di prodotti cinesi sono più diversificate: macchinari (10%), tessile e abbigliamento (4%), materiale per trasporti (4%), calzature (2%) e prodotti della plastica (2%).

I partner commerciali maggiori della Cina in Africa sono: Angola, Sud Africa, Sudan, Nigeria e Egitto. Il commercio con questi paesi rappresenta il 62% del commercio complessivo con l’Africa.

Il petrolio è sceso da oltre 140 dollari al barile a meno di 50. Stesso ragionamento per il rame e le altre materie prime. Questo potrebbe avere effetti negativi sulla presenza cinese in Africa. Herbst e Mills riportano che nel Katanga, una regione meridionale della Repubblica Democratica del Congo, più di 60 compagnie cinesi di estrazione hanno abbandonato il terreno.

Hu Jintao ha promesso che gli impegni verranno mantenuti. Finora così è stato. D’altra parte, la crisi coinvolge tutti gli attori internazionali presenti in Africa.

Sarebbe un errore pensare alla presenza cinese in Africa solamente in termini economici. La Cina è una grande potenza, la quale persegue obiettivi globali in maniera pragmatica ma anche con strategie ben definite e di lungo periodo. La sua struttura politica interna, peraltro, favorisce questi processi.

Oltre gli interessi economici, quindi, Pechino lavora per ottenere dai 53 stati africani il maggior appoggio politico possibile, negli organismi internazionali e non solo. La diplomazia cinese, molto preparata, lavora alacremente anche nei paesi meno importanti dal punto di vista economico. La questione Taiwan è ancora presente, anche se solamente 4 paesi africani ancora riconoscono Taiwan.

La Repubblica Popolare fa leva su legami che risalgono alla conferenza dei non-allineati di Badung del 1955. La Cina è un paese in via di sviluppo che dialoga con paesi in via di sviluppo. Ha conosciuto la dominazione occidentale, proprio come gli africani, ed il principio della non interferenza negli affari interni di uno stato, insieme agli altri principi stabiliti a Bandung, sono ancora un punto di riferimento.

Questa impostazione le ha permesso di essere presente là dove gli occidentali se ne sono andati. Innanzitutto Sudan e Zimbabwe. Gli stati africani, da parte loro, hanno la possibilità – impensabile sino a 15 anni fa – di dire no agli organismi internazionali dominati dalla troika Usa-UE-Giappone. L’ha fatto l’Angola con il Fondo Monetario Internazionale, per esempio.

Negli ultimi anni la pacifica ascesa cinese ha inevitabilmente aumentato il coinvolgimento di Pechino in questioni che hanno a che fare con la sicurezza e la guerra. Anche se la Cina contribuisce in minima parte al budget delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, è il Paese membro del Consiglio di Sicurezza con più caschi blu in Africa. Dall’inizio del 2009, inoltre, partecipa in forze alla lotta contro la pirateria somala nel Golfo di Aden.

La vendita delle armi ed il sequestro di connazionali sono altri temi su cui la Cina viene coinvolta. Dal 2000 la Cina vende armi, sia pesanti che leggere, alla maggioranza dei paesi africani. Il caso più controverso è il Sudan: il 90% delle armi leggere sudanesi sono di provenienza cinese.

Il sequestro di connazionali ha avuto luogo in Etiopia, Sudan, Nigeria. La migrazione cinese, peculiare e numerosa rispetto ai paesi occidentali, e la questione della percezione e degli effetti della presenza cinese nel continente sono alla radice di questi fenomeni. La percezione che gli africani hanno della Cina cambia a seconda del loro stato e condizione sociale. Per molti esiste un modello cinese, il quale viene percepito come alternativo rispetto al neoliberismo occidentale. Altri non accettano la presenza cinese, che viene vista come predatoria e, sostanzialmente, in niente dissimile rispetto al neocolonialismo occidentale.

In Occidente l’irrompere dell’Impero di Mezzo in Africa fa paura. Argomenti senza alcun fondamento – per esempio la paura dell’eccessivo indebitamento dei paesi che ricevono prestiti dalla Cina – si sommano a questioni più strutturali. Le condizioni di vita dei lavoratori, cinesi e non, impiegati dalle multinazionali a occhi a mandorla, la bontà delle infrastrutture costruite da Pechino, l’impatto ambientale delle stesse e gli effetti di lungo periodo dell’interscambio sono fenomeni da approfondire.

Il tema dei diritti umani e della democrazia, poi, è da tempo oggetto di una guerra ideologica più che di un’attenzione reale.

Un dato strutturale è certo: una parte importante dell’aumento del PIL africano, in questi anni, è da ricollegarsi all’intervento cinese. La Cina, ormai seconda potenza mondiale, sta intervenendo pesantemente in Africa. Sta agli africani utilizzare a proprio vantaggio questa nuova situazione. La storia del Novecento ha insegnato che cambiamenti sociali e politici progressisti devono essere frutto di un processo interno di emancipazione e riforma morale e intellettuale. Altrimenti rimangono episodi effimeri.

pubblicato su Liberazione, 12 aprile 2009, p. 22

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