Enrico Lobina Andrea Pili Andria Pili

Tra coronabond e Sardegna: per un europeismo critico. – di Andria Pili

Andria Pili interviene su coronabond, Sardegna ed Europa. Per un europeismo critico.

di Andria Pili

Lo scorso mese ci siamo lasciati affermando che un punto di incontro tra progressisti sardi entro formazioni unioniste e Sinistra indipendentista debba essere:

1) la rinuncia a vedere lo Stato-Nazione italiano come l’unità minima in cui realizzare una società democratica e l’Unità statale come qualcosa di sacro e inviolabile (di conseguenza, bisogna riconoscere il diritto all’autodeterminazione nazionale e l’indipendenza come un mezzo possibile, il più radicale, per risolvere la questione sarda);

2) l’abbandono esplicito della tentazione a voler porre l’emancipazione nazionale sarda secondo i vecchi schemi dei nazionalismi ottocenteschi http://www.enricolobina.org/situ/quale-unita-quale-popolo-di-andria-pili/.

Una Sardegna indipendente e socialista dovrebbe essere vista come l’unità democratica minima da cui aderire a un progetto federale europeo entro cui la nostra isola possa stare, in condizioni di eguaglianza, con altri territori politicamente organizzati in senso democratico, senza più alcun legame di dipendenza con l’Italia.

A questo punto, ci sono alcuni punti che una Sinistra sarda dovrebbe chiarire rispetto ai “sardismi” di Destra o alle Sinistre unioniste. Una prospettiva di Sinistra indipendentista non può ambire né a una Sardegna paradiso per le multinazionali e i capitali stranieri, né a una sorta di Cuba comunista-autarchica in un Mediterraneo ostile. I lavoratori sardi che non hanno visto tutelati i propri interessi entro l’attuale assetto italiano ed europeo, non possono neppure auspicare un’Italia pienamente sovrana fuori dall’Unione Europea. La storia economica sarda ha mostrato bene come la politica economica pienamente sovrana abbia prodotto, al peggio, un grande divario con le regioni del Nord o, al meglio, una modernizzazione passiva foriera di disincentivi, ostacolanti la creazione di uno sviluppo endogeno. Scontato concludere che uno Stato italiano “sovrano”, ancorché socialista, non possa affatto essere una garanzia per risolvere la questione sarda; il sovranismo “patriottico-costituzionale” di certa Sinistra italica non dovrebbe proprio interessarci. Inoltre, per quanto l’ipotesi di una Sardegna indipendente entro l’attuale Unione Europea sia auspicabile rispetto all’attuale status di autonomia regionale, non si deve rinunciare a una critica e a una lotta contro il suo assetto neoliberale che ha consentito lo strapotere del capitale e incentivato le controriforme del lavoro e dell’istruzione.

Che fare, dunque?

Partirei dall’attualità. Germania e Olanda hanno guidato il fronte europeo contro i “coronabond” richiesti da altri 9 Paesi tra cui Francia, Italia, Spagna e Portogallo. Questi ultimi avevano proposto una garanzia comune sull’emissione di titoli di Stato, al fine di ottenere i finanziamenti necessari a sostenere l’economia colpita dall’epidemia, senza dover pagare tassi di interesse altissimi. I due Paesi nordici, invece, si oppongono in quanto non vogliono creare un precedente verso la mutualizzazione del debito pubblico tra Paesi ritenuti “virtuosi” e quelli “irresponsabili” nella gestione dei conti pubblici. Inoltre, il ministro delle finanze olandese Wopke Hoekstra ha chiesto un’indagine sul perché i Paesi del Sud Europa non abbiano un margine di bilancio necessario per affrontare una recessione. Questa dichiarazione ha creato parecchia indignazione, specialmente perché l’Olanda è uno Stato che pratica un aggressivo dumping fiscale ai danni degli altri paesi membri dell’UE. Dalle elaborazioni dell’economista Gabriel Zucman (vedi missingprofit.world), per esempio, il Paese dei Tulipani sottrae a Italia e Spagna, rispettivamente, circa il 3 e il 4% delle loro entrate sulla tassa sui profitti delle imprese (corporate tax).

Proprio nei momenti di crisi emergono le storture di un sistema. In questo caso, come avvenuto durante la crisi dell’eurozona, gli opposti interessi tra Stati sono venuti a galla. A livello europeo esiste un enorme problema di legittimazione democratica: non viene perseguito il bene comune dell’Europa; la salvezza del progetto europeo è tenuta sotto stacco da governi timorosi degli umori del proprio elettorato statale, l’unico a cui si deve sottoporre il proprio operato. Ciò vale per entrambi i gruppi di Paesi. Infatti, i governi italiano e spagnolo non dovendo rispondere a interessi generali ma unicamente italiani e spagnoli potrebbero essere incentivati a non garantire le condizioni necessarie per ripagare il debito garantito da tutti gli altri. Chi non vuole mettere in discussione l’attuale europeismo basato sugli Stati-Nazione non può, coerentemente, lamentarsi. Specie se ha spalleggiato la repressione degli indipendentismi (primo fra tutti il diritto dei catalani all’autodeterminazione nazionale).

A mio avviso, l’indipendentismo può svolgere un importante ruolo nella costruzione di un progetto europeista più stabile. Infatti, al contrario di quanto gli anti-indipendentisti sostengono, non vi è alcuna contraddizione tra l’indipendentismo e il progetto europeo. Sono proprio i Paesi più piccoli che necessitano di partecipare a uno spazio economico più ampio dei propri confini, al contrario di quelli più grandi che possono essere indotti a pensare di avere le dimensioni minime per “fare da soli” e a sponsorizzare l’integrazione europea quanto il protezionismo a propria temporanea convenienza. La questione Brexit (con i nazionalismi celtici pro Remain e i nazionalisti britannici inglesi per il Leave) è stata abbastanza esemplificativa.

Il problema politico è quello di una regolamentazione democratica di processi economici globali, a partire dai grandi poli regionali che sembrano delinearsi, fra cui quello europeo. Affinché un nuovo europeismo sia stabile, oltre a togliere potere agli attuali Stati per portarli verso l’alto a livello europeo e verso il basso alle “regioni”, è necessario che il progetto europeo sia un progetto fortemente marcato sul piano delle politiche sociali. La crescita delle diseguaglianze sociali sta minando il consenso all’europeismo in favore dei sovranismi statali; infatti, l’Europa, agli occhi di tanti europei, incarna sia le politiche antisociali quanto l’idea di una globalizzazione sregolata dai cui effetti i cittadini si sentono minacciati, bisognosi di protezione. Questo è anche il quadro in cui una lotta di emancipazione nazionale e sociale dovrebbe porsi nel XXI secolo.

Non credo che l’indipendenza sarda sarà come la costruzione degli Stati-Nazione europei del XIX secolo o quella degli Stati postcoloniali tra XIX e XX secolo. Non può e non deve esserlo. L’obiettivo primario, ora, dovrebbe essere l’auto-organizzazione nazionale dei lavoratori sardi al fine di inserire la Sardegna entro un processo di costruzione di un progetto europeo socialista, aumentando il potere contrattuale del popolo sardo anche contro il governo dello Stato centrale.

Approfondiremo meglio il mese prossimo.

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