alessandra fantinel

Il razzismo raccontato a… me stessa – di Alessandra Fantinel

Nella mia libreria cagliaritana preferita vado spesso alla ricerca di libri, fuori produzione, di autrici e autori sconosciut* o comunque che non ho mai sentito nominare, mai visto in TV o sentito alla radio.

Nell’ultima incursione mi sono imbattuta in un libro dal titolo “Noi italiani neri. Storie di ordinario razzismo” scritto da Pap Khouma pubblicato da Baldini Castoldi Dalai editore.

Era da un po’ di tempo che non leggevo un libro su questo tema. Durante la mia adolescenza mi sono fatta una bella scorpacciata di libri sul razzismo e sull’AIDS. Forse perché negli anni ‘80 e ‘90, erano argomenti di grande interesse e suscitavano in me un forte spirito di ribellione, che manifestavo nelle lunghe discussioni con le mie coetanee, coetanei e i miei familiari.

Il tema del razzismo non l’ho mai perso di vista: sono solita guardare film su questo argomento. Ogni volta mi arrabbio per le discriminazioni e le ingiustizie che riguardano adulti e bambini.

Provengo da una piccola realtà del Sulcis e le mie amicizie scolastiche ed extra scolastiche erano di pelle bianca, al massimo vantavamo qualche parente nella Penisola o qualche zio emigrato in Belgio o Germania.

I primi contatti con “stranieri” (termine orrendo ma difficile da sostituire) sono stati quelli con migranti senegalesi o marocchini, che esercitavano la loro professione di ambulanti di vari articoli e che erano soliti sostare nell’attività commerciale della mia famiglia. Mi capitava di osservare l’atteggiamento dei “nostri” avventori nei loro confronti, soprattutto per il fatto che ufficialmente tutte le persone si proclamavano non razziste. Le domande erano incentrate sul numero di mogli, il consumo di alcool o di carne di maiale. Nonché li sottoponevano a trattative sfiancanti per la vendita di un semplice accendino o di un pacchetto di fazzoletti. L’atteggiamento nei loro confronti era sempre non paritario:  si dava loro del tu, ma si pretendeva del lei e si canzonava sulle risposte alle domande personali e mai si permetteva loro di farne altrettante.

Con le esperienze successive (dalle superiori all’università e al lavoro) ho conosciuto e frequentato persone provenienti da contesti geografici, lingua e pelle diverse. E numerosi sono gli esempi di razzismo a cui ho continuato ad assistere.

Per questo motivo ho cercato, attraverso varie letture, di approfondire e capire il tema, anche perché continuo a far difficoltà a motivare, in una società multietnica quale dovrebbe essere la nostra, il radicamento di certi inopportuni atteggiamenti.

Sono stata attirata dal libro di Pap Khouma dalla copertina, nera con la scritta in bianco; ho letto la sintesi ed ho deciso che volevo provare a leggerlo. La versione del libro che ho in mano è del 2010, quindi pensavo che a distanza di 10 anni avrei letto argomenti e situazioni superate.

Pap Khouma è senegalese di nascita e cittadino italiano, direttore di una rivista online che si occupa di migrazioni e lavora in una libreria a Milano. Il suo racconto è un mix tra la finzione giornalistica e quella narrativa.

Il protagonista (forse è lui) ha la pelle nera, la doppia cittadinanza (senegalese di madre e italiana di padre) ed è stato vittima di uno strano caso. Mentre camminava per strada in prossimità di un autobus, i controllori gli hanno chiesto il biglietto e lui, non essendo sceso dal mezzo, ha risposto che non lo aveva. E’ nato un battibecco a cui è seguita una denuncia per lesioni da parte del controllore. Il libro si incentra sulla sua deposizione davanti ad un giudice, a cui racconta la sua vita, quella della sua famiglia e di quanti come lui hanno la pelle nera e vivono in Italia, a Milano.

Il primo passaggio importante è quello in cui il protagonista chiede al giudice se, a suo parere, sarebbe mai potuto succedere la stessa cosa ad una persona dalla pelle bianca: essere aggredito da 4 funzionari pubblici per aver osato contrastare un abuso di potere, ossia la richiesta di un biglietto dell’autobus solo perché passava là vicino.

Il libro propone e racconta storie personali e di suoi conoscenti: situazioni che, sicuramente, chi ha la pelle bianca ed un viso “regolare” difficilmente può vivere.

Quando il Milan vinse lo scudetto andò, con il figlio sul passeggino, a festeggiare insieme agli altri tifosi in Corso Buenos Aires e fu fermato dai vigili urbani. Questi gli chiesero i documenti e lo portarono nella vicina caserma, per presunto rapimento di minore. Non riuscivano a capacitarsi che un nero dichiarasse che quel bambino bianco fosse il suo. Solo l’intervento della moglie, bianca, riuscì a placare gli animi e figlio e marito poterono tornare a casa.

Racconta le vicende di giovani nati in Italia da genitori di diversa nazionalità che quotidianamente, per il colore della pelle, per il nome o il cognome che portano, devono sentir mettere in dubbio la loro provenienza o affermarla con prepotenza. Per esempio la vicenda di una giovane donna che si presenta ad un colloquio di lavoro e riceve i complimenti in quanto parla correttamente l’italiano, quando lei conosce quella lingua dalla nascita!

O, come successe ad una mia conoscente, madre adottiva di una ragazza nata in America Latina, alla cui figlia durante un colloquio di lavoro chiesero il permesso di soggiorno, nonostante nella carta di identità fosse indicata la cittadinanza italiana ….

Vi ricordate nel 1996 quando fu eletta Miss Italia Denny Mendez, cosa dicevano i grandi oppositori alla sua elezione? “E’ nera, non è una donna italiana” ed anche “Non incarna la bellezza italiana”. Ma cosa significa non è italiana o non è una bellezza italiana? Esiste un prototipo dell’italiana o dell’italiano? E’ nata a Santo Domingo sì,  ma ha la cittadinanza italiana: si trasferì all’età di 11 anni a Montecatini Terme!

Oltre agli immigranti di prima, seconda o terza generazione che vivono in Italia, ci sono tante persone che sono state adottate da italiani e che talvolta nulla sanno del loro paese d’origine e considerano lo Stivale la loro patria natia.

Come il pluripremiato calciatore Mario Barwuah, nato a Palermo nel 1990, da immigrati ghanesi, poi dato in affido alla famiglia Balotelli.  Quando all’età di 18 anni ottenne la cittadinanza italiana dichiarò: “Sono italiano, mi sento italiano, giocherò sempre con la Nazionale italiana”. Il calciatore, nonostante abbia contribuito alla vittoria di squadre italiane, è stato oggetto di insulti razzisti e accuse negli stadi e sui social.

Persistono atteggiamenti razzisti e xenofobi negli stadi, nei social e in ogni contesto pubblico, trasformandosi in atti di violenza e omicidi. Né un esempio il recente caso avvenuto a Colleferro il 6 settembre 2020 in cui perse la vita il 21enne Willy Monteiro Duarte, originario della Repubblica di Capo Verde. Il giovane morì a seguito delle percosse subite in una rissa in cui aveva tentato di difendere i suoi amici in difficoltà. 

Dice Pap Khouma: “Vorrei che almeno mio figlio non dovesse conoscere né l’odio o il sospetto, ma nemmeno la compassione, ben più subdola e dolorosa. Vorrei che nessuno si stupisse di scoprire che è italiano, come se un italiano nero fosse un paradosso. Vorrei che nessuno sospettasse automaticamente di lui se non si trova qualcosa in classe, a scuola, e nessuno gli chiedesse il biglietto con arroganza, presupponendo che in quanto nero debba viaggiare illegalmente”.

Racconta anche episodi che possono strapparci un sorriso, ma che nascondono tutta la nostra arretratezza culturale: un giovane con la pelle scura seduto in una scalinata di una chiesa che aspetta una sua amica, che riceve (dai fedeli) l’elemosina!

Situazioni ed episodi che “Un italiano bianco non vivrà e non capirà mai la rabbia che provano gli italiani neri. (…) la rabbia che viene creata dall’occhiata sospetta che senti su di te quando entri in un negozio; il taxi che non ti prende da una certa ora; se non sei vestito bene in certi luoghi rischi di essere considerato un criminale; quando ti siedi vicino a una signora o a una ragazza, lei subito sposta la borsa; quando prendi la metropolitana con i tuoi amici bianchi, chiedono il biglietto soltanto a te”.

Un ulteriore pregiudizio è riservato alle donne, come riportato nel libro, quando si trovano per strada e vengono importunate perché scambiate per prostitute: come se l’essere donna, nera, indicasse una specifica professione!

Giuridicamente si diventa o si è cittadini italiani con diritti civili e politici per:

  • nascita (ius sanguinis), quando c’è una discendenza diretta da almeno un genitore in possesso della cittadinanza italiana;
  • nascita sul territorio italiano, quando si nasce in Italia da genitori stranieri si può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”;
  • adozione;
  • matrimonio.

Ma l’avere la cittadinanza non equivale ad essere considerati italiani: è il colore della pelle e/o i tratti somatici che portano al suo riconoscimento sociale. Se poi aggiungiamo un aggravante al fatto che, a seconda del colore della pelle e/o dei tratti somatici, si identificano i buoni e i cattivi, abbiamo completato il quadro.

Ho un carissimo amico, italiano da entrambi i genitori, che ha la pelle scura ed un  viso che non ha mai ispirato fiducia nei buttafuori delle discoteche in cui andavamo. Lui, un bravissimo ragazzo, aveva la necessità di farsi accompagnare da due o più amiche come garanti per il suo ingresso. O ancora un mio cugino, con un nome arabo, che in ogni suo viaggio, di lavoro o piacere, veniva fermato e perquisito a differenza dei suoi compagni di viaggio. E di esempi ce ne sarebbero  tanti altri.

Pensiamo ancora al linguaggio utilizzato comunemente.

Perché parlare di persona di colore se tutt* abbiamo un colore di pelle (bianca, rosa, gialla, marrone o nera)? Perché straniero/a (parola che deriva dal latino estraneo/ esterno), rispetto a cosa?

E lo facciamo, non volutamente, perché dobbiamo identificare chi è diverso da noi.

In questo senso mia figlia mi ha dato una grande lezione di vita: eravamo al mare e per indicarmi un aquilone in mano ad un bambino con la pelle nera mi disse “Mamma guarda l’aquilone di quel bambino col cappellino rosso”. Ho guardato il bambino ed ho pensato che io l’avrei identificato come senegalese, mentre mia figlia, a prescindere dal fatto che non avrebbe saputo identificarne la presunta provenienza geografica, non ne ha avuto bisogno. Per lei era un bambino.

Eppure se ha un bambino o a una bambina chiedi di indicarti uno/una povero/a, penso che la maggioranza opterebbe per chi ha la pelle nera.  Quindi, qualcosa non quadra.

Perché non solo ci sono tanti pregiudizi ma anche altrettanti stereotipi. Ossia si pensa che chi non è italian* (?) debba svolgere lavori e professioni specifiche: ambulante nel commercio, colf, giardiniere, ecc. Le professioni da diplomati e/o laureati non sono in linea con il colore della pelle.

Alcuni giorni fa, a Napoli, una magistrata onoraria chiese ad un avvocato napoletano di origini nigeriane di mostrarle il tesserino (da avvocato) e se fosse laureato. Posto che la vicenda è stata abbondantemente strumentalizzata, appare quanto mai evidente che, la magistrata onoraria, non si sarebbe mai permessa di fare un’obiezione del genere ad un bianco.   

“Vorrei che la nuova generazione di italiani neri, possa affrontare tutte le scelte di vita e di lavoro sulla base dei propri meriti e capacità”. Ed è su questi elementi che Pap Khouma continua: “Arriverà il giorno in cui in questo Paese ci saranno medici neri, poliziotti, avvocati, e anche controllori dei mezzi pubblici neri. Quello sarà un gran giorno, spero di vederlo”.

Il libro di Pap Khouma ci fa capire che poco o nulla è cambiato da 10 anni a questa parte. Stesse dinamiche medesime reazioni. Sicuramente è aumentato il livello di integrazione, dovuto alla frequentazione di scuole, attività sportive e contesti lavorativi, ma la strada per la vera integrazione, e soprattutto il rispetto del prossimo, è ancora molto lunga.