Recovery Fund Sardegna

Il “Recovery fund” e la Sardegna

Qualche giorno fa Mauro Pili, sull’Unione Sarda, ha svelato i contenuti del “recovery fund” per la Sardegna, e cioè i contenuti del piano europeo per far ripartire l’economia e la società dopo lo tsunami del COVID-19, che ancora non è passato.

La ricostruzione è corretta, ma parziale in alcuni aspetti. Stupisce, in questi giorni, la pochezza di analisi specifica, “sarda”, della “classe dirigente” che si esprime sul tema sui quotidiani sardi.

Qua ci limitiamo ad alcune brevi osservazioni.  

Il documento si può scaricare qua sotto, il termine tecnico è “Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)”. La versione in nostro possesso non è la definitiva, ma dati i contenuti è meglio che sia così.

Partiamo dalle risorse. Quelle a disposizione, in più rispetto ai fondi europei “soliti”, sono circa 209 miliardi di euro, nel periodo 2021-2029, tra prestiti e sussidi. In altre sedi abbiamo segnalato come secondo osservatori internazionali l’Italia “avrà bisogno di 500-700 miliari di euro per compensare gli effetti del virus”.

Alla luce di quanto sta succedendo, 209 miliardi di euro sono insufficienti.

Alcuni commentatori ed alcuni giornali parlano di 309 miliardi di euro, perché si aggiungono ai 209 miliardi del PNRR circa 100 miliardi di fondi europei legati al quadro finanziario pluriennale.

Sul tema, riguardo il caso sardo, mettiamo in chiaro due aspetti:

  • La “addizionalità” di questi fondi rispetto al bilancio regionale, non esiste più. Questi fondi sono ormai “parte integrante” del bilancio regionale;
  • Una seria valutazione strategica dell’impiego dei fondi europei spesi in Sardegna negli ultimi 20 anni, poniamo a partire dal POR 2000-20006, se mai verrà fatta, dimostrerà che non è importante la “quantità” della spesa, bensì le “ricadute” della stessa. E ne vedremo delle belle.

Torniamo ai 209 miliardi, che non sono i 500-700 che servivano ad aprile.

Giuseppe Conte, nell’incipit del documento, si chiede “che Paese vorremmo tra dieci anni?”. Potremmo chiederci: “che Sardegna vorremmo tra dieci anni?”.

Io vorrei una Sardegna che riduce ed annulla il gap infrastrutturale: strade, ferrovie, porti, aeroporti.

Di tutto questo nel PNRR non c’è nulla. Gli interventi infrastrutturali specifici per la Sardegna sono assenti. Ce ne sono per Genova e Trieste, per il sud Italia, ma non per la Sardegna.

Ci sono tutti gli interventi trasversali, suddivisi in quattro grandi aree (modernizzazione del paese/transizione ecologica/inclusione sociale e territoriale/parità di genere).

Su questi aspetti, tempo permettendo, torneremo in futuro.

Vi sono, in generale, aspetti positivi e negativi e molti punti oscuri, nel senso che la loro efficacia/efficienza dipenderà da come verranno declinati.

La stessa “transizione ecologica” presenta molte ombre, ed il finanziamento alla sanità insufficiente per bilanciare il rapporto sanità pubblica/sanità privata e per “territorializzare” e “rivoluzionare” l’approccio alla salute.


Torniamo allo specifico sardo, che viene affrontato in due punti.

Il primo è il “piano energia per la Sardegna e le piccole isole” per cui si prevede l’impiego di “una tecnologia innovativa per la produzione di energia elettrica da moto ondoso”.

Al netto degli eventuali impatti paesaggistici, la Sardegna viene ancora vista come una “piattaforma energetica”, del cui risultato finale (energia e profitti) godranno realtà esterne alla Sardegna, e cioè imprese non sarde in possesso di detta tecnologica. In più, essendo la Sardegna produttrice netta di energia, difficilmente una ulteriore produzione elettrica comporterà benefici per le sarde ed i sardi.

Insomma, un intervento da “piano di rinascita”. E difficilmente si potrà introdurre la logica della “verticalizzazione di filiera”.

Il secondo punto è il “Fondo per una Transizione Equa”, che dovrebbe finanziare la transizione energetica delle zone di Taranto e del Sulcis. “Il Fondo per la transizione dovrebbe spingere gli investimenti nello “sviluppo di tecnologie e infrastrutture per energia pulita e prezzi accessibili, efficienza energetica e rinnovabili, compreso nei siti industriali“; ma anche nella “rigenerazione e bonifica dei siti”, nella “creazione di nuove aziende” e nella formazione dei lavoratori”, in relazione ai processi di chiusure delle miniere a carbone.

Il Sulcis ha usufruito in questi anni di un piano regionale specifico, di una zona franca specifica, e non mi pare con risultati sorprendenti. Più che le risorse da investire il tema è il “paradigma dello sviluppo”, evidentemente.

L’ultima parte del PNRR è dedicato agli impatti. Le tabella di pagina 118 e 120 tracciano un quadro formidabile per il Sud, e per la Sardegna, per il quale nutro, da profano, dubbi. Mentre l’impatto sul PIL del PNRR per l’Italia sarebbe, al 2023, del 1,1%, per il Sud sarebbe il 5,29 e per la Sardegna il 5,34%. Senza interventi strutturali, solo con gli interventi trasversali, è davvero possibile?

Pensiamo che la politica degli sgravi contributivi per le imprese, già sperimentata, e la riforma fiscale e della giustizia possano produrre risultati di questo tipo? E perché mai? Se qualche economista riesce a spiegarmelo ne sarei felice.

Se invece si pensa ad un risultato migliore per via dei fondi di coesione e dei fondi strutturali, che aiutano di più il Sud e la Sardegna, vale il ragionamento di cui sopra.

Ad una prima lettura, quindi, l’impressione è che la Sardegna perderà il treno, non particolarmente ricco, del PNRR, se l’obiettivo era ridurre il “gap”, il distacco, tra aree deboli d’Europa ed aree forti. Se l’obiettivo è vivacchiare e continuare ad “utilizzare” la piattaforma territoriale, allora niente di nuovo.


PS. Su alcune proposte sulle linee di intervento trasversali torneremo nei prossimi giorni.

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