A seguito della bocciatura del referendum costituzionale del dicembre 2016 le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno deciso di usufruire di quanto prevede l’art. 116, comma 3, della Costituzione, secondo cui “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali”.
Queste ulteriori forme di autonomia non si basano su una diversità storica e culturale di queste aree rispetto all’Italia, bensì sui principi per cui “le tasse che si versano in un luogo devono rimanere in quel luogo” e “facciamo le cose meglio dello Stato per cui fatele fare a noi”.
L’idea sottostante, e spesso chiaramente espressa, è che queste regioni regalano soldi a Roma ed alle regioni meridionali, e non lo vogliono più fare.
Il governo precedente ha firmato una prima generica intesa a febbraio 2018, e quello attuale, soprattutto nella sua componente Lega, sembra intenzionato ad arrivare in tempi relativamente rapidi ad un accordo che affiderà alle regioni citate competenze importanti in molti settori.
La Campania ha, per tutta risposta, convocato una seduta straordinaria del consiglio regionale sul tema per il 15 gennaio. Il governatore Vincenzo De Luca ha presentato una proposta che si articola su 5 punti:
“1) Operazione-verità: verifica oggettiva di quante risorse si spendono per i diversi servizi pubblici sia al Nord che al Sud.
2) Spesa storica: va costruita una fase di ripartenza, con fondi dedicati per il recupero dei territori virtuosi del Sud, realizzando le condizioni quindi per risalire e riemergere.
3) Costi standard: va accettata la sfida dell’efficienza ma con fondi dedicati per il recupero del gap se bene utilizzati.
4) Fondo perequativo: seguendo quanto afferma l’art.119 della Costituzione, garantire la coesione e la solidarietà colmando il divario di sviluppo e di reddito.
5) Fondo per la coesione: riservare il 35% dei fondi nazionali al Sud con verifica puntuale dell’efficienza nell’amministrare i finanziamenti”.
Quasi tutte le regioni a statuto ordinario hanno chiesto l’attivazione della procedura prevista dall’art. 116, comma 3. Solamente tre non l’hanno fatto.
L’atteggiamento campano, ed il generale atteggiamento dell’élite politica meridionale, contrasta la proposta di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia argomentando che così si “dividerebbe l’Italia”. L’argomento in sé è corretto, ma va reso senso comune riprendendo la parte migliore del meridionalismo italiano, che oggi si deve collegare alle dinamiche centro-periferia che coinvolgono tutta l’Unione Europea, e che hanno coinvolto e coinvolgono ancora gli ex paesi coloniali, oggi immersi in terribili forme economiche e culturali di neocolonialismo e neoimperialismo.
I territori deboli non sono deboli perché abitati da “fannulloni”, “scialacquoni” o “delinquenti”, bensì perché precise dinamiche economiche e di potere estraggono valore e ricchezza e lo trasportano da un luogo all’altro.
La Sardegna, nel 1948, ha basato il proprio Statuto speciale di autonomia non sui caratteri di popolo e nazione dei sardi e della Sardegna, tanto meno sui propri caratteri culturali (la lingua) o la propria specificità storica. La Sardegna ha basato il proprio Statuto sul “risarcimento” che lo Stato italiano avrebbe dovuto dare alla Sardegna. Non è un caso che l’articolo più famoso, l’art. 13, prevede che sia lo Stato, e non la regione, a realizzare il piano di rinascita.
Oggi la battaglia per l’inserimento dell’insularità in Costituzione è assimilabile a quella impostazione.
Dopo 70 anni di storia autonomistica siamo ancora a quel punto. La lingua sarda non è stata ancora inserita in statuto.
In realtà, conformemente a tutti i rapporti centro-periferia, anche i rapporti Italia-Sardegna andrebbero spiegati in altro modo, partendo dall’insegnamento gramsciano del rapporto tra cultura dominante e cultura dominata, e tra economia dominante ed economia dominata.
I CPT (Conti Pubblici Territoriali) e gli studi della CGIA di Mestre, che dicono continuamente che l’Italia regala soldi alla Sardegna, sono parte dell’ideologia dominante, da destrutturare e combattere.
Facciamo alcuni esempi.
Quante centinaia di milioni di euro regala la Sardegna al mondo ogni anno coi suoi emigrati, che vengono formati in Sardegna a spese dei sardi, e poi creano valore fuori? Secondo autorevoli studi, siamo nell’ordine di almeno 400 milioni di euro all’anno (250 euro a sardo all’anno).
A quanto ammonta il trasferimento di valore delle famiglie sarde che si dissanguano per pagare gli studi universitari e post-universitari dei propri figli in Italia ed all’estero?
A quanto ammonta il pendolarismo sanitario dei sardi verso l’Italia, cioè i viaggi a carico della Sardegna, ed a vantaggio dell’Italia, per permettere ai sardi di curarsi?
A quanto ammonta il fatto che in Sardegna si trasforma il petrolio in benzina, con tutto ciò che ne consegue (problemi sanitari ed economici) e l’enorme ricavato delle accise viene ripartito dove si consuma la benzina, e non dove viene prodotta?
A quanto ammontano i guadagni del Ministero della Difesa Spa per l’affitto dei poligoni militari, presenti praticamente solamente in Sardegna?
E potremmo continuare….
La Sardegna, ed il meridione d’Europa, deve ribaltare il discorso. Lo deve fare per se stesso, e per il centro Europa. I gilet gialli vivono al centro d’Europa, ma con i nostri stessi problemi.
Sarebbe il momento di mettere al centro il benessere dei popoli, del centro e della periferia d’Europa, mediante un processo politico che si basi sulla cooperazione, e non sulla competizione che tutto distrugge (persone ed ambiente) ed a tutti fa male.
I sardi, per conto loro, hanno la possibilità che la prossima legislatura regionale sia costituente, e che su questi aspetti si esprima.