
Care e cari,
giovedì 15 settembre ho avuto l’onore di presentare il libro di Gianni Mascia Tzacca Stradoni. Vi propongo la traccia del mio intervento.
Enrico
Quando ho cominciato a leggere “Tzacca stradoni!” mi è subito venuto in mente il celeberrimo passo di Antonio Gramsci sui subalterni e la cultura
“La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. E’ indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo.
I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria ‘permanente’ spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in stato di difesa allarmata […].
Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere”
Gramsci Antonio, Quaderni (Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana), Einaudi, Torino 2001, quaderno 25, p. 2288
Nel libro di Mascia emerge, seppur riferito ad un settore specifico dei subalterni (coloro che parlano il gergo di soparma), il rapporto tra cultura dominante e cultura subalterna.
Mi è venuto in mente il passo di Gramsci non perché il libro sia una monografia sull’iniziativa autonoma dei gruppi subalterni, in questo caso dei cagliaritani, in una fase storica precisa. No, il libro di Mascia non è questo. Però ha a che fare con i subalterni.
“Tzacca Stradoni” è la ripresa, il disegno, il racconto della città attraverso la periferia.
Tzacca stradorni – su gergu de Soparma – Racconti della mala cagliaritana, consta di circa 160 pagine e 6 racconti. Oltre i racconti, di lunghezza diversa, abbiamo la prefazione di Roberto Bolognesi, la premessa dell’autore, un glossario ed una fraseologia.
Il glossario riporta alcuni dei termini usati nel libro, che vengono spiegati in italiano, e di cui, evo esistente, si riporta il termine campidanese. Il libro, infatti, utilizza una lingua onomatopeica: vengono cioè riportati le parole seguendo i suoni ed il modo con cui, secondo l’autore, è meglio codificarli. Non si segue nessuno standard, né quello italiano (sono frequenti le parole con doppie che in italiano non esistono), né quello sardo, sia nella sua variante campidanese che nella LSC (Limba Sarda Comuna). Sergio Atzeni, in alcuni suoi libri, ha usato una tecnica simile.
In queste settimane si è girato Bellas Mariposas. Ecco, che io sappia, dopo Sergio Atzeni ed Enrico Pau, nessuno ha raccontato la Cagliari della periferia, che poi è la Cagliari della maggioranza di chi, nella capitale della Sardegna, ci è nato o ci è venuto ad abitare.
Con questo non intendo fare paragoni tra Sergio Atzeni e Gianni Mascia. Semplicemente, a me e a qualche altro appassionato di questi argomenti coi quali mi sono confrontato, dopo Sergio Atzeni, per quanto riguarda la scrittura, ed Enrico Pau, per quanto riguarda i film, non vengono in mente persone che hanno raccontato la Cagliari dei subalterni. O meglio, qualcuno c’è stato, ma in settori diversi.
C’è stato Joe Perrino, che l’anno scorso ha fatto un lavoro che va nella stessa direzione di quello di Mascia, però sulle canzoni. Joe Perrino ha ripreso le canzoni di tziu Podda, di Efisio Podda, e le ha reincise.
C’è stato Elio Turno Arthemalle, che è stato il primo a codificare lo “scialandrone”, che viene citato anche da Gianni nel suo libro. Tra l’altro, volevo chiedere a Gianni che tipo di gioco di carte è il secondo gioco di carte che viene citato nel volume, la marsalina.
C’è stato Roberto Mura, che ha raccontato ne “Il palazzo dei non autorizzati”, ma anche ne “Il notturno” una Cagliari di invisibili.
Per il resto, la Cagliari che si racconta è la Cagliari del centro storico, della borghesia e, in questi ultimi anni, c’è stata una Cagliari raccontata da giovani sotto i 40 anni i quali, con capacità letterarie più o meno spiccate, hanno raccontato Cagliari attraverso loro esperienze personali.
Un elemento interessante è quello della lingua. C’è lo slang del gergo di soparma, che definisce una comunità, cioè quella di coloro che non parlano correttamente italiano, e neanche sono nati in un contesto in cui si parla correntemente ed in modo nettamente staccato rispetto all’italiano il sardo, ed in più sono influenzati dal linguaggio della galera, che si sviluppa a livello italiano.
E poi, in diverse parti del libro, c’è l’italiano. L’italiano viene usato dalle forze dell’ordine, cioè da chi è esterno alla comunità. Viene usato per segnare un distacco, una superiorità. Chi lo usa conosce anche il gergo di soparma, ma fa finta di non capirlo.
L’italiano viene usato come lingua che crea un solco, tra la polizia o i vigili ed il popolo, o tra le ragazze del Floriana (nel libro Gloriana) e i ragazzi di periferia.
Per esempio il vigile a un certo punto interviene dicendo
“Prima di tutto parli l’italiano che io non la capisco bene, anche se è facile indovinare cosa mi sta dicendo”.
Nel caso del Floriana, la ragazza che prima faceva finta di non capire il gergo di soparma quasi subito si svela per ciò che è, cioè per una componente di quella comunità che, attraverso atteggiamenti precisi e l’uso della lingua italiana, tenta di appartenere ad un’altra Cagliari.
C’è un caso, poi, in cui l’italiano viene usato a fini umoristici, nel racconto “Aldolino Tostoinu”, a p. 125 del libro, dove si scrive
“Ascolti,” gli avveva ripetuto l’agente “io non ho tempo da perdere e voglio chiudere un occhio perché lei mi sembra una brava persona, anche se un po’ alticcia…”
“Alticcia? La’ che io sono il più alto di via Petrucci, ma cali alticcia…” si era infrascato Tostoinu.
Su pulottu ridendo: “Ma no, alticcio vuol dire che ha bevuto un po’. Ma non si preoccupi, che io sappia lei non ha danneggiato niente e nessuno e, quindi, come le dicevo, voglio venirle incontro”.
Dal punto di vista politico, una sola piccola annotazione: le politiche per il bilinguismo. Le politiche per il bilinguismo sono necessarie per accorciare la distanza tra amministratori e amministrati, per creare un sentimento di appartenenza, per accrescere il protagonismo sociale, l’innovazione e lo sviluppo.
Ma il libro di Mascia è anche altro. E’ un libro pieno di verve e di umorismo. Fa ridere. E’ un libro che racconta la città, con personaggi più o meno inventati. Tutti possono riconoscere chi sta dietro Giggismondo, il maresciallo Giggismondo. E sicuramente chi ha frequentato quei posti in quegli anni ne potrà riconoscere altri.
Uno di quelli che a me più sono piaciuti è quello di Guido Su Para, il cui racconto è proprio “Tzacca Stradoni”. In lui ho riconosciuto persone, donne e uomini, di grande intelligenza, che la società ha ostinatamente messo ai margini, e quasi sempre ci è riuscita. Ho in mente le loro facce, i loro visi, i loro nomi e cognomi.
E’ un libro dove c’è di sfuggita la boxe (p. 48), che a Cagliari ha una storia particolare, ed è un libro che ruota intorno al personaggio di Lucianetto Strappo, il rivelatore di queste storie, colui che ci accompagna dentro un mondo che, attraverso questo libro, ci fa ridere ma dove c’è anche lo spazio per momenti tragici. Sto pensando al primo racconto “Su rossinu sgobbau”, che si conclude con una doppia morte per overdose, e proprio le ultime due righe recitano “cominciava così il primo elogio funebre del quartiere per quei due figli sfortunati”.
Il libro di Gianni Mascia è un libro pieno di umanità. E’ un gesto d’amore. Un gesto d’amore verso la città e verso gli ultimi, verso un’umanità che commette una marea di errori e che però, in fondo, è vittima di qualcosa che non capisce.
C’è un famoso saggio, di una delle autrici più illuminate nel settore dei subaltern studies, che si intitola “can the subaltern speak?”, cioè “può il subalterno parlare?”. Sta alle organizzazioni politiche, agli intellettuali, agli artisti far parlare i subalterni, se lo vogliono e se riescono a farlo.
Questo libro fa parlare i subalterni, identificati in questo caso con una parte specifica di popolazione e, quindi, con tutti i pregi e i difetti che possiamo trovare.
Sta a noi saperli ascoltare.

