
Gli scioperi solitamente si fanno contro qualcosa. O contro qualcuno. Ci si pone degli obiettivi chiari. Da ottenere. E se non si ottengono si prevede quali saranno le ulteriori forme di protesta.
Gli scioperi non sono sfilate o manifestazioni. Sono proteste, dove i lavoratori bloccano la produzione e perdono ore di salario.
Nella preparazione dello sciopero generale regionale sardo del 5 febbraio questo ragionamento sembra essere saltato. La positiva notizia di uno sciopero unitario Cgil-Cisl-Uil non deve significare consenso a prescindere. Perché oggi, se uno sciopero non si prepara nel modo corretto, diventa un boomerang o, nel migliore dei casi, una sfilata inconcludente.
Questo sciopero non ha nemici. Maggioranza e opposizione in Regione lo appoggiano. Il governo italiano non viene criticato da chi ne ha scritto la piattaforma. La Confindustria, italiana e sarda, scompare dal documento.
Il contesto nel quale piomba la più alta forma di protesta dei lavoratori è drammatico. In Sardegna su un milione e 671mila abitanti 350mila vivono sotto la soglia di povertà. I disoccupati sono 150mila. Aggiungiamo 450mila pensionati e 150mila dipendenti pubblici diretti, e avremo un’immagine già sufficientemente chiara del tessuto produttivo isolano.
La crisi economica e le scelte romane hanno disastrosamente messo in ginocchio la Sardegna. Si pensi solamente a 2.500 precari che, in un settore strategico come la scuola, sono stati licenziati nel 2009. Urgono soluzioni drastiche.
La piattaforma presentata in vista dello sciopero generale è, in questo senso, largamente inadeguata.
Non c’è alcuna critica al dio mercato che, così come evidenziato dalla crisi dell’Alcoa (2.000 lavoratori, componenti spesso di famiglie monoreddito, in cassa integrazione), spesso scavalca i governi nazionali e trova appoggio tra gli euroburocrati di Bruxelles. Non c’è la proposta del blocco dei licenziamenti. Non c’è la problematizzazione delle politiche per lo sviluppo finora adottate (ciò implicherebbe anche un’autocritica). Manca un progetto complessivo sul settore primario.
Non viene neanche citata la questione appalti e diritti dei lavoratori, venuta alla ribalta in seguito alle morti sui luoghi di lavoro nel 2009.
Sulla scuola e sul settore della conoscenza non si chiedono impegni concreti, e la formazione professionale viene anteposta a scuola, università e ricerca. Non si chiede la rottura del Patto di Stabilità. La richiesta di un nuovo Statuto non viene collegata ai concetti di “sovranità” e “autogoverno”.
Nei documenti sullo sciopero, inoltre, non viene mai citata la questione della pace e della guerra, così drammaticamente presente in un’isola che subisce la grande maggioranza delle servitù militari italiane.
Nel documento presentato in occasione della Assemblea delle Rappresentanze del Popolo Sardo, inoltre, viene posta in primo piano la “sussidiarietà orizzontale“, che in soldoni significa che dove il pubblico non riesce a garantire un servizio, va bene anche un privato. Coi padroni delle aziende coinvolte che fanno profitti, e i lavoratori che guadagnano meno e lavorano di più.
Nel contesto attuale, dove i lavoratori non arrivano a fine mese, è difficile farli scioperare. Se non ci sono obiettivi concreti e non vi è fiducia nelle organizzazioni che indicono gli scioperi, ancora di più.
Su questo i rappresentanti dei lavoratori dovrebbero riflettere. Il 5 febbraio la piazza sarà piena. Con il rischio, però, che finisca tutto lì e che, anzi, si alimenti la disillusione. A chi ha cuore i diritti dei lavoratori il compito di impedirlo.
pubblicato su Liberazione, 3 febbraio 2010, p. 11
