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Democrazia, libertà ed autodeterminazione – la situazione in Kurdistan – La relazione di Luca Pusceddu

May 14th, 2015  |  Published in Cagliari, Politica

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Ospitiamo la relazione compiuta da Luca Pusceddu, del circolo Me-Ti, in occasione della serata su “Democrazia e resistenza praticate in Kurdistan e Rojava”. C’è molto da imparare: buona lettura.

 

Il circolo Me-Ti recentemente ha voluto organizzare un momento di riflessione sulla esperienza delle “Regioni Autonome Democratiche” di Afrin, Cizre e Kobane, anche nota come “Contratto sociale del Rojava” per “l’autogestione democratica”. La ragione di questo interesse è dettata non tanta – o comunque non solo – dall’eco mediatico suscitato dall’eroica resistenza della città di Kobane all’avanzata dell’ISIS, quanto dal maturare di una duplice consapevolezza: da un lato la convinzione che la Carte sociale del Rojava rappresenti qualcosa di più di un esperimento strettamente locale, e, dall’altro, dalla presa d’atto della necessità di riconsiderare tanto la pratica politica e organizzativa quanto il bagaglio teorico e di analisi di quella che un tempo si sarebbe detta la sinistra radicale. Il percorso avviato a partire dagli anni 2000 dal PKK, e in particolar modo dal suo storico leader Öcalan, appare, sotto questo profilo, assolutamente interessante.

Come è noto, il PKK è stato storicamente una organizzazione di stretta osservanza marxista-leninista il cui obiettivo politico, relativamente alla soluzione della questione kurda, è sempre stato quello della costituzione di uno Stato della nazione kurda. Nel corso della sua detenzione Ocalan ha sottoposto la precedente esperienza politica del PKK ad una revisione categoriale e teorica che lo ha condotto, da un lato, ad abbandonare (strategicamente) il progetto di uno stato nazionale kurdo, e dall’altro, ad abbracciare la prospettiva del confederalismo democratico,   del municipalismo – o altrimenti detto “comunalismo”- e dell’autogoverno, nel quadro di una società ecologica, così come furono tematizzati da Murray Bookchin. La svolta del PKK credo sia stata determinata dalla consapevolezza della impossibilità di addivenire, dati i rapporti di forza generali e gli equilibri complessivi nella regione, alla formazione di uno stato nazionale curdo, da un lato, e, dall’altro, conseguentemente, dalla stringente necessità di mettere a punto forme di lotta, pratiche organizzative, modelli politico-istituzionali, in grado di scardinare – e superare – le contraddizione insite nel modello di stato nazionale, a cui pure, fino a non molto tempo fa, mirava il PKK. Specie in un momento storico in cui la riflessione sulla crisi – e la trasformazioni – del Leviatano abbraccia, trasversalmente, i più disparati ambienti politici e culturali.

L’evoluzione politico culturale e organizzativa del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che sarà poi il germe dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), rappresenta una esperienza molto interessante che ci mostra una straordinaria capacità di autocritica veramente rivoluzionaria.

Il PKK, nato sul finire degli anni 70, ha sempre avuto come obiettivo non solo la liberazione in una prospettiva nazionale ( lo Stato dei kurdi), ma anche come fine il progetto di liberare e democratizzare la società. Il PKK ha sempre riconosciuto la connessione che esiste tra la questione curda e il dominio globale del moderno sistema capitalistico, ed in un contesto di mondo bipolare, in cui l’alternativa al mondo capitalista e la liberazione della società sembravano giungere dal Socialismo Reale, ed in cui l’influenza dei movimenti di liberazione nazionale di matrice marxista-leninista era molto forte, il PKK sosteneva la creazione di uno Stato socialista curdo per liberare il popolo del Kurdistan.

Messi alle spalle i trascorsi della lotta e dei progetti di stati socialisti, il PKK cominciò allora a riconsiderare i suoi obiettivi, prendendo atto della fine di un ciclo e della necessità di ripensare strategie e scopi. A coloro che hanno criticato la rinuncia alla creazione di uno stato socialista del Kurdistan come un segno di incertezza o di debolezza, Öcalan ha sempre risposto che non è questo il punto, quanto, semmai, l’analisi sull’esperienza degli stati socialisti e la conclusione che nel Socialismo reale non vi era stato nessun cambiamento nello stile e nei modi di vita rispetto alla vita capitalista del resto del mondo, per cui un progetto di liberazione e democratizzazione del Kurdistan e della società non poteva provenire da una soluzione statalista.

Il PKK iniziò cosi a ri-orientare la propria politica sganciandosi progressivamente dal marxismo-leninismo delle origini cominciando a porsi domande in cui la questione dell’organizzazione democratica acquistava una rilevanza sempre maggiore, pur senza abbandonare, tuttavia, il nucleo socialista delle sue idee. E anzi, evolvendosi verso una forma di socialismo libertario.

La lotta per la liberazione doveva quindi essere ripensata. Così l’organizzazione gerarchica, la ricerca del potere istituzionale e l’idealizzazione della lotta armata cominciavano a cedere il passo alla democratizzazione, alla organizzazione comunale, alle assemblee e all’autodifesa: si cominciava, insomma, ad avanzare verso il Confederalismo Democratico.

Per questa via il PKK cominciava a giungere a questioni e conclusioni molto affini a quelle del municipalismo libertario e del con federalismo democratico del pensatore americano Murray Bookchin. E fu nel 2002 che Öcalan cominciò lo studio delle opere di Bookchin, tanto da raccomandare, tramite i suoi avvocati, ai militanti ed ai politici curdi la lettura di Urbanizzazione senza città e di Ecologia della Libertà: emergenza e dissoluzione della gerarchia. A conferma dell’influenza che il pensatore libertario ed ecologista avrà, a partire da quel momento, sulla successiva evoluzione del PKK, varrà la pena ricordare che quando nel 2006 morì, l’assemblea del PKK lo ricordò come “uno dei maggiori scienziati sociali del XX secolo. Ci ha introdotto al pensiero dell’ecologia sociale ed ha contribuito allo sviluppo della teoria socialista al fine di avanzare su basi più ferme. Ci ha mostrato come fare nel rendere reale un nuovo sistema democratico. Fu propulsore del concetto di Confederalismo, un modello che crediamo sia creativo e realizzabile. Le tesi di Bookchin sullo Stato, sul potere e sulla gerarchia saranno implementate e realizzate nella nostra lotta… Metteremo questa promessa in pratica come prima società che stabilisce un confederalismo democratico tangibile”. Ciò che appunto si sta sperimentando nella regione del Rojava: un progetto antistatale, municipalista e comunitario.

Un progetto che, nella elaborazione di Bookchin, si basa su due concetti fondamentali: quelli di contro-potere e contro-istituzione. La Confederazione delle assemblee cittadine e delle Bio-regioni rappresentano, nella prospettiva di Bookchin, esattamente questo: un contropotere, una contro-istituzione, un “doppio potere” contro lo Stato (Governo)-Nazione: la sua negazione.

Il municipalismo libertario, quindi, come punto d’appoggio, ancoraggio solido contro lo stato-nazione. Bookchin cercò, attraverso una rigorosa ricostruzione storica, di individuare e stabilire le fondamenta storiche della democrazia assembleare. Fece emergere così una lunga tradizione di assemblee dei cittadini nell’antica ecclesia ateniese, nelle prime città italiane, tedesche e nei Paesi Bassi, come nelle veche russe di Pskov o Novograd, o nelle assemble comunere della Spagna del sedicesimo secolo così come nelle assemblee rivoluzionarie delle sezioni parigine del 1793 fino alla Comune di Parigi nel 1871 e nei Soviets del 1905 e 1917, o nei collettivi rivoluzionari in Spagna nel 1936-1929. Fino ai più recenti town meetings dei cittadini. Egli mostrò, inoltre, come, ,contrariamente all’ortodossia marxista, il luogo per la rivoluzione non fosse l’organizzazione dei lavoratori nella fabbrica ma, al contrario nella municipalità, nei consigli delle municipalità, e cioè, per dirla con le parole di Guy Debord,lo spazio “dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni” per ricondurre “tutto il potere alla forma disalienante della democrazia realizzata”.

Dunque l’urbanizzazione – afferma Bookchin – pose storicamente le basi dialettiche per una rivolta municipalistica per la libertà contro lo stato-nazione. Lotta mai assopita, tanto che il fatto che uno Stato possa rimanere più o meno tale dipende sostanzialmente dalla capacità che i movimenti locali, confederali e comunitari, hanno di contrapporsi a esso e possibilmente di instaurare un potere parallelo che lo sostituisce. La municipalità e il municipalismo libertario come spazio e terreno di lotta per la conquista dell’egemonia, diremmo con termine gramsciano, fino a rendere via via irrilevante lo Stato-nazione con i suoi apparati burocratici centralizzati. Naturalmente non sfugge a Bookchin la questione fondamentale del potere, la sua quintessenza: la forza. Allora nella cornice di una sistema di contro-poteri e contro-istituzioni, un ruolo fondamentale è assegnato alla formazione delle milizie civiche e alla contesa, con lo Stato-Nazione, per il monopolio dell’uso legittimo della forza.

Varrà forse la pensa ricordare, a questo punto, che Bookchin, come Öcalan, proveniva dalle file del marxismo-leninismo e del pensiero dialettico. Egli abbandonò il marxismo verso la fine degli anni 50, ma non c’è dubbio che l’influenza di Marx, o anzi, per meglio dire, del pensiero dialettico e olistico, resterà fondamentale. L’opera di Bookchin potrebbe essere definita come una sorta di “Narrazione della Civiltà”. Tuttavia egli finirà col discostarsi su diversi punti dal marxismo.

Bookchin riconduceva la crisi del capitalismo non tanto allo sfruttamento delle classi lavoratrici ma alla intollerabile disumanizzazione della persone e alla distruzione della natura. In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, dal momento che la crisi ecologica è anch’essa un riflesso della generale crisi della legge del valore e del processo di valorizzazione capitalistica. Bookchin ha però il merito di avere compreso, fin dagli anni ’50, che il vizio mortale del Capitalismo era rappresentato dal fatto che fosse in conflitto con l’ambiente naturale, distruttivo sia della natura che della salute umana. Esso industrializzava l’agricoltura, contaminando i raccolti e di conseguenza le persone, con sostanze chimiche tossiche, gonfiava le città con la costruzione di invivibili megalopoli. Trasformava le persone in automi e danneggiava i loro corpi e la loro psiche. Li spingeva, attraverso la pubblicità, a spendere i loro soldi in merci inutili, la cui produzione danneggiava ulteriormente l’ambiente.

La risposta alla catastrofe ecologica, nella prospettiva di Bookchin, è allora la costruzione di una società ecologica basata sulla confederazione di libere municipalità nell’ambito della bio-regione. Per creare una società ecologica, le città dovrebbero essere decentrate, così la gente potrebbe vivere in una scala più piccola e autogovernarsi, produrre e scambiare localmente e usare energia rinnovabile. Insomma, mettere mano ad una economia municipale La nuova società sarebbe guidata non dai dettami del mercato o dagli imperativi di un’autorità statale, ma dalle decisioni del popolo organizzato in assemblee municipali tra loro federate. La municipalità diventa lo spazio fondamentale entro cui ripensare la “Comunità”, sorgente principale della sovranità e luogo a partire dal quale ripensare il senso vero e pieno della politica, finalmente affrancata dal “professionismo”.

 

 

 

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