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La contrattazione regionale 20 anni dopo

La contrattazione regionale 20 anni dopo

A proposito del libro di Enrico Maria Mastinu “Stato, regioni e sindacato nella disciplina del lavoro alle dipendenze delle autonomie regionali”

Ogni coalizione politica che mira al governo della Regione Sardegna (intesa come struttura amministrativa), dal dopo guerra ad oggi, ha sbandierato la irrinunciabile priorità di riformare “la struttura amministrativa”[1].

Il libro di Enrico Maria Mastinu mette i piedi nel piatto, da un punto di vista eminentemente giuridico, su come il legislatore regionale, e l’insieme degli attori politici e sociali interessati, hanno (mal)trattato la struttura amministrativa regionale, sarda ma non solo.

Il libro, edito dalla Edizioni Scientifiche Italiane nel 2021, pone il termine del 2001, e cioè la riforma del Titolo V della Costituzione, quale momento di cesura.

Prima del 2001, la disciplina e l’autonomia delle regioni a statuto speciale, in materia di organizzazione degli uffici e stato giuridico ed economico del personale, era distinta dalle regioni ordinarie, almeno sulla carta. Non di meno, già da subito, sul tema dello “stato giuridico ed economico del personale”, si rilevò come le regioni a statuto speciale, a parte dinamiche salariali migliori rispetto al resto del comparto pubblico, ben poco fecero.

Dopo la riforma del 2001 il sistema, per usare un termine poco scientifico, impazzì. Dal punto di vista giuridico, come sottolinea Mastinu, “dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la nostra dottrina non ha mai compiutamente messo a tema questo snodo fondamentale della vicenda”.

Non si decise che tipo di Stato si voleva costituire, se uno stato con una forte autonomia territoriale (anche comunale?), o uno stato regionale, o uno stato federale. Tre opzioni diverse, ma ancora oggi, in tempi di “autonomia differenziata” (ebbene si, è ricomparsa), non è chiaro quale soluzione sia stata scelta.

Con la riforma del Titolo V, seppur indirettamente, ma con grande forza, alle regioni ordinarie vengono date, per le materie di cui tratta il libro di Mastinu, le stesse competenze delle regioni a statuto speciale, ed anche qualcosa in più, nel senso che hanno guadagnato una competenza esclusiva in materia, senza l’obbligo di rispettare i principi fondamentali ricavabili dalla disciplina statale in materia. Tanto è che le regioni a statuto speciale, appellandosi alla legge costituzionale n. 3 del 2001, chiedono di avere “condizioni di autonomia almeno parificate rispetto a quelle delle cugine minori”[2].

A quel punto, ci fu la reazione dello Stato o, meglio, della Corte Costituzionale:

Vi è stata, è vero, la reazione della Corte Costituzionale; e quale reazione, se l’autonomia legislativa delle Regioni in materia si è alla fine ridotta a quello che oggi vediamo: un simulacro di sé stessa, non si sa dire se umiliata più dall’invadenza del potere legislativo centrale o dal cattivo uso fattone dai legislatori regionali, non di rado somigliante a dei veri e propri assalti alla diligenza, puntualmente respinti dalla stessa Corte. Ma la riduzione ai soli aspetti organizzativi interni del perimetro delle potestà legislative regionali che ne è derivata è stata costretta a procedere per linee esterne e laterali, mediante la valorizzazione delle competenze statali trasversali, prima fra tutte quelle in materia di ordinamento civile e poi quella in materia di coordinamento finanziario.

La storia di questo libro, suddiviso in tre capitoli che possono anche essere letti singolarmente, è la storia di questo rapporto: la riforma del Titolo V, la risposta della Corte Costituzionale e dello Stato, ed in più la incapacità del legislatore regionale di utilizzare le facoltà in proprio possesso.

Il sindacato viene riconosciuto come attore centrale, ed in diverse parti lodato, ma non è esente da critiche.

Le regioni a statuto speciale prima, e le regioni tutte dopo il 2001, hanno usato il potere di legiferare sullo “stato giuridico ed economico del personale”? La risposta è no, per delle concause in parte già delineate (incapacità, disinteresse, ruolo accentratore dello Stato) ma anche per una facile volontà di allinearsi a norme definite a livello statale e, quindi, più sicure[3].

Sulla cattiva legislazione regionale, fatta di clientele e sostanziali ruberie, il Mastinu torna diverse volte, riferendosi al caso sardo, ma non solo.

C’è da aggiungere, persaltro, in una ottica comparatistica, che

In nessun sistema istituzionale europeo comparabile a quello italiano, per dimensioni dell’impiego pubblico e tradizione amministrativa, vi è attribuzione piena agli enti minori di competenze legislative in materia di stato giuridico ed economico del personale pubblico.

Non in quello tedesco, dove ‘lo stato giuridico del personale che presta servizio pubblico nei Lander’ forma oggetto di una potestà legislativa concorrente. […]

Non in quella francese, di impronta fortemente accentrata, che non contempla alcuna devoluzione/ripartizione di competenza in materia in favore delle Regioni.

Non in quello spagnolo.

Utilizzando limiti generali e soprattutto limiti particolari, su tutti la potestà legislativa in materia di ordinamento civile e la competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, la potestà regionale è stata fermata anche in ambiti che, come scrive Mastino, sarebbe stato più corretto attribuire all’autonomia regionale.

Il bilancio finale è quello di una “curvatura in senso autoritario dei limiti costituzionali generali e delle potestà legislativa statali trasversali”.

Nella parte finale del volume Mastinu pone delle condizioni affinché si realizzi una ricomposizione del quadro costituzionale del riparto della potestà legislativa. Un ruolo centrale lo assume la contrattazione collettiva regionale, che si immagina estesa, come contrattazione collettiva di primo livello, a tutte le 21 regioni e provincie autonome.

Non conosciamo abbastanza i casi delle regioni italiane per esprimerci.

Per fermarci al caso sardo, la creazione di comparti contrattuali di primo livello come se fossero funghi (dopo il Corpo Forestale di Vigilanza Ambientale, ora anche la Protezione Civile) è il sintomo che non si sa quanto lavoro si debba fare per tenere un contratto collettivo di primo livello al passo coi tempi. Ed il nostro CCRL, anche quando era uno, da molti anni non è al passo coi tempi.

Oltre la manutenzione ordinaria, abbiamo bisogno di una grande manutenzione straordinaria, una vera, profonda riscrittura del contratto.

Insieme a questo, a livello legislativo, l’intero impianto organizzativo andrebbe ripensato, per adeguare il “Sistema regione” ai compiti che ci vogliamo autoassegnare come collettività sarda del XXI secolo.

E per farlo al meglio ci servirebbero, se sapessimo usarli, tutti i poteri che lo Statuto di autonomia ci fornisce. E magari anche qualcuno in più.

Lo Stato dovrebbe essere sfidato su questo, sulla capacità riformatrice e, contemporaneamente, accusato di slealtà. A fronte di una furberia continua regionale, infatti, lo stato è stato sleale, quanto meno a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione la quale, volenti o nolenti, si sarebbe dovuta rispettare.

Questi temi necessitano una classe dirigente. Anche per questo abbiamo pensato ad una presentazione pubblica del volume, alla presenza dell’autore e di autorevoli ospiti, che avverrà l’11 novembre 2021, presso la Biblioteca regionale della Sardegna, in viale trieste 187, alle ore 16:30.


[1] Cfr. il secondo capitolo di Enrico Lobina, Considerazioni sulla riforma della burocrazia regionale alla luce di una nuova visione del futuro della Sardegna, Fondazione Sardinia, Cagliari 2019.

[2] Enrico Maria Mastinu, Stato, regioni e sindacato nella disciplina del lavoro alle dipendenze delle autonomie regionali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2021, p. 2. Vedi anche p. 17: “L’assegnazione alle Regioni ordinarie della potestà legislativa esclusiva a disciplinare tanto la materia della organizzazione degli uffici quanto quella considerata incorporata dello stato giuridico ed economico del personale regionale ha sortito l’effetto di attribuire per la prima volta a questi enti la signoria nominale sull’intera materia del pubblico impiego regionale, liberandoli formalmente dai vincoli: a) del rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato; b) dell’interesse delle altre Regioni e c) dell’interesse nazionale, previsti nel testo originario dell’art. 117 Cost”. 

[3] “D’altra parte occorre considerare che la normativa dell’impiego statale ha sempre trovato parecchi canali per essere acquisita dagli enti pubblici minori: innanzitutto il canale delle autorità di controllo (…). In secondo luogo, il fatto indiscutibile che questa normativa era sempre più perfetta di quella degli enti minori, se non altro perché discussa in sede nazionale, talora con la partecipazione del Parlamento, talora delle associazioni sindacali e soprattutto elaborata da una giurisprudenza copiosa (…). Infine, lo spirito di imitazione che gli enti minori hanno sempre avuto nei confronti dell’ente Stato (…). Ancor oggi, malgrado certe insistenti riaffermazioni di autonomia organizzativa (…), non si conosce un solo regolamento per il personale, che sia stato adottato da un ente diverso dallo Stato, che si segnali per un suo particolare interesse giuridico; perfino le Regioni a statuto speciale, che erano partite con propositi accesamente polemici, di rivedere a fondo la normativa sull’impiego pubblico, per darsi strutture che si diceva dovessero essere più agili e moderne, hanno finito con l’adottare normative che non presentano niente di originale (…). Per cui il risultato ultimo è che la normazione statale è stata ribadita nella sua posizione di normazione pilota in tutti i suoi diversi profili”.