alessandra fantinel

ORA BASTA! – di Alessandra Fantinel

Da alcune settimane hanno rimosso da una trafficata via cagliaritana un imponente manifesto pubblicitario che, al vederlo, mi provocava l’orticaria!

Il cartello, di grandi dimensioni, fotografava un uomo, seduto di fronte ad una scrivania di un presunto ufficio, circondato da 6 donne, giovani, ben vestite e sorridenti. Cosa potrebbe mai pubblicizzare? Ciò che mai e poi mai dovrebbe essere divulgato con una immagine di quel tipo, ossia la formazione.

Ad alcune persone quel manifesto non ha sortito alcun effetto, forse non è stato neppure notato: io non solo l’ho notato ma, per deformazione personale (non professionale!), mi ha colpito negativamente.

In realtà è uno dei tanti manifesti pubblicitari che sono presenti nelle nostre città, nelle strade provinciali, statali e che nel 2020 continuano a riproporci un’immagine sessista e stereotipata di donne e uomini. Non bisogna essere espert* della comunicazione per comprendere il ruolo sociale che immagini di questo tipo hanno: rafforzano differenze di genere, consolidate nella nostra cultura.

La pubblicità rappresenta lo specchio della società in cui viviamo e ci descrive in termini di idee e valori più comunemente condivisi e diffusi. Anche gli spot televisivi o sul web continuano a proporci una mercificazione del corpo della donna, esso è puro oggetto del piacere maschile o una stereotipizzazione del ruolo che le donne (ma anche gli uomini) ricoprono nella società. L’immagine delle madri, casalinghe, segretarie o di uomini d’affari, atleti o grandi manager: esempi di questo tipo ce ne sono tanti.

Ma ci sono anche messaggi più subdoli, con allusioni sessuali, in cui semplicemente per pubblicizzare una macchina si utilizza una donna semi nuda o in pose ammiccanti.

Come sappiamo l’informazione passa attraverso i mass e i social media, tutti autori o vettori di questi messaggi.

Pensiamo poi ai programmi televisivi. Vi ricordate “Drive In” il famoso programma degli anni’80? Vi sembra che da allora le cose siano realmente cambiate? Sì è vero più professioniste (giornaliste, scienziate, studiose) sono presenti nel panorama televisivo ma quante sono ancora le “veline” o le “vallette” con abiti succinti o con ruoli secondari? E’ necessario un cambio di rotta.

Anche perché questa cultura sta continuando a produrre le sue vittime.

Il 25 novembre si è celebrata in tutto il mondo la giornata internazionale contro la violenza sulle donne: abbiamo visto e letto di tutto. I dati sul numero di casi di femminicidio che ogni anno si verificano sono agghiaccianti e non presentano segni di diminuzione. Eppure ci sono leggi che tutelano le donne sia nel momento in cui denunciano che successivamente: pensiamo ai finanziamenti previsti per i Centri antiviolenza e alle misure economiche per sostenere le donne affinché possano ricostruirsi una vita. Ma non bastano, visti i risultati. Stiamo ancora sbagliando. Manca ancora una cultura del rispetto che deve essere la base per eliminare violenza e ogni forma di discriminazione.

Il sito https://femminicidioitalia.info/lista/2020 dichiara che le vittime in Italia nel 2020 sono 69. L’ultima una 41enne sarda, Simona Porceddu, uccisa dall’ex compagno a Novilara in provincia di Pesaro. La vittima, in realtà, non è solo lei. Le loro due figlie, di 7 e 12 anni, si porteranno dietro questo trauma per tutta la vita.

Ma sono sicuramente molte di più le donne vittime di violenza psicologica, economica e sociale che le statistiche non rilevano. La violenza e i femminicidi interessano tutte le società, senza distinzione di età e religione e prescindono dal titolo di studio e dalla condizione economica. E qui gioca un ruolo determinante la cultura, la cultura del rispetto!

Quante donne sono costrette a vivere una situazione di violenza non avendo la forza economica per abbandonare il proprio compagno? Uno degli elementi su cui si dovrebbe insistere è l’emancipazione economica. Perché il fattore denaro è spesso il freno alla volontà di andarsene. Ci sono donne che decidono di abbandonare il loro lavoro per dedicarsi alla famiglia, ma non sempre questa è una scelta realmente coraggiosa. Ho conosciuto donne determinate, forti ed emancipate culturalmente ma che hanno fatto scelte di questo tipo e che, in momenti diversi della loro vita, le si sono ritorte contro. Ho sentito uomini accusare le proprie compagne, con cui avevano condiviso la scelta di dedicarsi alla famiglia, di non fare nulla per la stessa. Perché la cura e l’assistenza ai minori, agli anziani e alla famiglia è pur sempre un lavoro ma non essendo retribuito, pare, non sia meritevole di considerazione e di rispetto.

Proviamo a cambiare l’ordine delle cose: rafforziamo il sistema di welfare e cerchiamo anche con strumenti normativi appetibili, di invogliare tutti i componenti della famiglia alla condivisione di compiti di assistenza e cura. Solo quando questi elementi saranno veramente condivisi da tutti se ne attribuirà la dovuta importanza. E le donne saranno libere di cercare e mantenersi un lavoro.  

Sto leggendo un bellissimo testo dal titolo “Invisibili” di Caroline Criado Perez, che presenta come indicato dal sottotitolo “Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”. Un libro di 450 pagine in cui si dimostra che in tutto il mondo il lavoro di cura è una incombenza femminile. Il numero di ore dedicate all’accudimento della famiglia varia da Paese a Paese, ma è costante la differenza tra il carico maschile e quello femminile. Relativamente alla questione del lavoro non retribuito racconta:

“Alle lavoratrici boliviane viene accreditato un anno di contributi per ogni figlio, fino ad un massimo di tre. Si è inoltre scoperto che l’introduzione di crediti pensionistici a favore del genitore che ha la responsabilità primaria dei figli incentiva gli uomini ad assumersi una quota maggiore del lavoro di accudimento (e, come effetto secondario, potrebbe offrire una soluzione a lungo termine al problema della povertà femminile). Il nocciolo della questione sta tutto in una domanda: il lavoro non retribuito delle donne è sottovalutato perché è invisibile, o è invisibile perché non gli diamo il giusto valore?”.

Ritorniamo al concetto dell’utilizzo della paternità. Già dal 1974 la Svezia aveva una normativa importante sulla paternità ma pochi ne usufruivano. Così dal 1995 i padri hanno il diritto esclusivo ad un mese di congedo parentale retribuito al 90% dello stipendio e non possono cederlo alla madre. Nel 2002 la durata del congedo è stata portata a due mesi e a tre nel 2016. Considerato che, se i padri non ne usufruiscono perdono il diritto, la percentuale di utilizzatori è cresciuta sensibilmente.

I dati dimostrano che gli uomini che usufruiscono del congedo di paternità tendono a essere più coinvolti anche dopo nella cura dei figli. Inoltre pare che incrementi anche lo stipendio delle madri lavoratrici (in media il 7%) per ogni mese di astensione dal lavoro richiesta dal padre. Forse perché sono più propense a straordinari, incarichi, ecc..  

La scrittrice rileva che in tutti i Paesi del mondo l’organizzazione della società è basata sull’uomo bianco di età media; la programmazione degli interventi, di qualsiasi natura, è attuata sulla base di dati senza distinzione di genere. Quindi le questioni non vengono analizzate e gestite in base alle esigenze dei reali fruitori dei servizi, ma sulla base di dati generici, onnicomprensivi (che rappresentano il genere maschile). Il libro offre spunti di riflessione importantissimi su cosa succede quando ci si dimentica di prendere in considerazione metà del genere umano. Ossia denuncia i danni provocati dall’assenza di dati di genere nella vita di ogni donna: dalla pianificazione urbana, alla politica, alla sanità e al lavoro.

In uno dei capitoli in cui si parla dei luoghi di lavoro, viene evidenziata l’incidenza delle molestie e della violenza nei confronti delle infermiere e di come la struttura degli ospedali (anditi lunghi) sia poco confacente alle esigenze di sicurezza di chi ci lavora. Tra le proposte delle intervistate (il numero delle donne è nettamente superiore a quello degli uomini) l’esigenza manifestata è quella di una struttura diversa, a raggiera, che garantisca, soprattutto quando il personale è ridotto al minimo, un più semplice raggiungimento dei colleghi in caso di difficoltà.

Ecco che con un cambio di prospettiva si possono migliorare i contesti lavorativi: semplicemente ascoltando “l’altra metà del cielo”, soprattutto quando i luoghi (strade, posti di lavoro, ecc.) hanno una preminente utenza o presenza femminile.   

Uno spiraglio di speranza arriva dagli Stati Uniti d’America.

Nel mese di novembre, per la prima volta nella storia, è stata nominata una donna vice presidente degli Stati Uniti, che rappresenta un esempio di emancipazione femminile, giovanile e nera: la senatrice californiana Kamala Harris.

Donna che vanta diversi primati: la prima afroamericana e la prima asiatica americana ad essere stata candidata alle presidenziali di un grande partito; la prima donna nera a diventare procuratrice distrettuale a San Francisco e poi procuratrice generale della California.

Donna combattiva che non ha avuto paura di rinfacciare errori razziali commessi da Biden e che ha ottenuto le scuse ufficiali di Barack Obama, che si era permesso di definirla la “più bella procuratrice americana”.

Kamala Harris ha rotto il soffitto di cristallo, arrivando nel club esclusivo maschile. Ma la sua attività politica ha messo le basi per una nuova visione del mondo: il pretendere rispetto in quanto persona e in quanto donna. E chissà che diventi la nuova presidente degli Stati Uniti d’America.

Non sono sostenitrice delle donne sempre e comunque, ma sono dell’avviso che quando le cose non funzionano bisogna provare a cambiarle. Finora hanno governato gli uomini, ora lasciamo spazio all’altra parte dell’universo. Perché, forse, nella programmazione urbanistica possano ricordarsi di quanto devono essere larghi i marciapiedi per permettere il passaggio di carrozzine e passeggini; o della necessità di asili nido nelle aziende private e pubbliche; o magari dell’esigenza di strumenti per lavorare in maniera più flessibile e finalizzati all’obiettivo e non alle ore che passi in ufficio; o ancora studiare a come realizzare attrezzature adatte a mani femminili piuttosto che continuare a dire che le donne non sono portate per svolgere lavori da uomini, come muratori e/o elettricisti.      

E magari che possano mettere mano ad una norma che elimini ogni tentativo di discriminazione e di sessismo in ogni ambito della vita sociale. La lotta per l’emancipazione femminile è una lotta culturale che deve trovare il corretto riconoscimento nella scuola e in ogni strumento di diffusione delle informazioni.

Ribalto una strofa di una canzone di Fedez, che non sarà sicuramente il filosofo del XXI secolo ma che arriva con i suoi messaggi alle nuove generazioni, che dice: “Non cerchi soluzione quando ami il problema”. Noi non amiamo il problema e la nostra soluzione è la diffusione della cultura del rispetto quello che pretendiamo come persone e come donne!