di Gianfranco Murtas
«La politica odia i poveri». Soggetto, predicato e complemento. Un fotogramma che vale un film. Forse sarà per la suggestione esercitata dal vocabolario (e dalle azioni simboliche, sempre intimamente anche politiche) di papa Bergoglio, di rimando ai valori di umanesimo che anticipano e profilano ogni scenario possibile, io credo proprio che quel verbo e quel complemento meriterebbero recupero e riflessione.
Espressione di un’area politica distante dalla mia, lui consigliere comunale a Cagliari in questi trascorsi cinque anni e oggi candidato sindaco, Enrico Lobina mi fa compagno della stessa sua ansia. Chiamala morale, o etico-civile, necessariamente infine, per la progettualità che deve derivarne, politica. Ansia politica.
Mi spiega tutto con l’esempio rapido della cronaca: quello del morto per il freddo, in una strada della nostra città capitale – «capitale» la chiama e ne spiega il senso –, in un inverno che pure non è stato freddo; quello delle famiglie che hanno occupato stabili vuoti ed abbandonati in questo o quel quartiere del perimetro urbano e cui l’Amministrazione (il sindaco Zedda il comunista?) ha fatto staccare l’acqua, in pedissequa obbedienza a un qualche decreto governativo che ne offre la facoltà. Con la conseguenza che i bambini di quelle famiglie neppure si sentono più di andare a scuola. Se la politica odia i poveri, tutto potrà venirne, di umiliazione sociale, oggi e domani.
I poveri: alieni o cittadini?
Io penso alle giovani madri, nostre o di altra etnia, che sostano con le loro creature ancora poppanti sui marciapiede, magari all’ingresso dei bar, per colpevolizzare chi va a prendersi un caffè e nega loro, infastidito per la commedia – quando commedia è –, la moneta. Penso, in verità, ai bambini più che alle loro madri, le quali hanno un’età tale da capire le regole e potersi allineare ad esse se c’è un’autorità che quelle regole sa imporle e farle rispettare dopo aver “risolto il problema” del vitto e dell’alloggio e favorito la ricerca di una certa, e pur relativa, autonomia. Perché nella primissima età i bambini registrano quella che potrà essere la loro norma di vita, e noi, restando indifferenti davanti alle scene dell’oggi, li renderemmo accattoni a vita. Io scrissi a suo tempo al sindaco Floris, segnalando la cosa anche al presidente Ciampi, in una logica di umanitarismo nazionale. Mi rispose, incaricata da li maggiori, la Ada Lai, allora dirigente dell’assistenza sociale del Comune, negando in assoluto il fenomeno. Al mio invito a scendere le scale dal suo ufficio e ad andare a verificare, al civico 10 e al civico 20 e al civico 30 di questa e quella via e quell’altra che pure erano tutte ad appena cento metri dal municipio di via Sonnino, ritrattò, spiegò le difficoltà dell’intervento, la necessità di combinarsi con il Tribunale dei minorenni ecc. Poi mi pare si candidò, o precandidò, sindaco per Forza Italia, il partito quintessenza di una moralità civica al rovescio… che faceva politica imbrillantinandosi e vendendo il prodotto con la valigetta dei commessi viaggiatori, in adesione all’illuminazione del miliardario il santo. Forza Italia: che pena e quanta pena per Cagliari, e anche per il Poetto ripasciuto e l’Anfiteatro millenario bucato per fissarci il legno di comodo per i sederi!, e direi anche per il fascismo di Endrich a confronto con il parafascismo dei tardi suoi epigoni chiamati agli assessorati…
In tempi in cui, a proposito di poveri e di solidarietà, qualcuno ha puntato il dito accusatore anche verso la Caritas, a causa dell’inciampo dei mesi scorsi riguardo alla raccolta dei capi di vestiario da ridistribuire, ho creduto giusto, invece, nuovamente richiamare l’eccellenza della sua opera e della sua conduzione, a fronte di un insoddisfacente – ancora ampiamente insoddisfacente – servizio dell’assistenza comunale, scadente con Floris (il democristian-forzista) sindaco, scadente con Zedda (il comunista di SeL)sindaco. Forse è venuto il momento di organizzare a Cagliari una conferenza di confronto, di esperienze e ricerca di sinergie, fra operatori istituzionali e del volontariato, facendone coprotagonisti gli utenti, i tanti che hanno bisogno e non trovano neppure udienza là dove dovrebbero.
Un liberal-comunista, fra Bacaredda e Marx
Intendendo approfondire la conoscenza personale e quella pubblica di una parte del nuovo ceto dirigente presentatosi al voto civico nel 2011, ho proposto ad Enrico Lobina un colloquio di dieci ore, chiedendogli di poterlo poi raccontare. Accordato. E peraltro tutto è facilitato dalla comunanza di certi interessi di studio (nel novero il VietNam decolonizzato e travolto poi dalla guerra, anni ’40-70) e della visione sociale fra lui e me, dalla nostra frequenza quasi quotidiana delle aule della MEM (Mediateca del Mediterraneo), dal convergente impegno, tempo addietro, per formalizzare il riconoscimento di merito, da parte della rappresentanza (data la miserevole diserzione del sindaco Zedda), a don Mario Cugusi per quanto da lui compiuto a pro del quartiere della Marina lungo trent’anni pieni…
Glielo spiego: lui come Portoghese, magari come Lecis Cocco Ortu o Ghirra, o altri giovani rappresentanti della città giunti alla assemblea municipale in questi ultimi anni, quasi si trattasse di replicare, in forme originali e aggiornate, l’inchiesta (mancata però) sulla specialità del partito della Casa Nuova che governò Cagliari, con Bacaredda, cento anni fa. Non senza errori anche allora, ma certamente con un chiaro obiettivo modernizzatore, una sensibilità sociale (pur se i socialisti e gli altri democratici dell’opposizione non la scorgevano sempre negli atti amministrativi), una tendenza a passare dal liberalismo notabilare a, finalmente, la democrazia. Si legga, a tale proposito, il discorso tenuto dal sindaco-mito, ancora nel municipio castellano, in quell’autunno del 1911 che fu anno di accelerazioni per Cagliari. Lo ripubblicai in “L’edera sui bastioni” nel 1988, e trovai lì molte chiavi interpretative della trentennale Amministrazione bacareddiana.
In Lobina scorgo un bacareddiano, lui uomo della sinistra storica più avanzata, di classe (si sarebbe detto ancora qualche anno fa, prima della cosiddetta caduta delle ideologie): un bacareddiano perché rivela uno sguardo lungo, di prospettiva, e perché conosce le forze sul campo suscettive, se motivate da quel maggior regista che sarebbe poi la coscienza collettiva, di operare l’avanzamento che pare necessario e perfino urgente. In agenda la città metropolitana, con le sue espressioni ora istituzionali – di stretto raccordo intercomunale – e sociali; in agenda le ricadute che rodaggio e regime della città metropolitana potranno avere sul sistema Sardegna, così in termini di dinamiche demografiche come di volumi di investimento in infrastrutture e in unità produttive; in agenda una consapevolezza di nuovi moduli nella interlocuzione dell’amministrazione con la politica, e dunque – di rinforzo agli indirizzi dell’ANCI – con il governo italiano e quello dell’Unione Europea, secondo criteri di rispetto delle autonomie territoriali, queste restando vincolate, a loro volta, a impegni di responsabilità di sistema.
Cagliari, le due città
«Cagliari è una città duale», dice Lobina. E spiega il suo giudizio: «c’è la Cagliari di chi ha lavoro, ha casa, ha famiglia, insomma ha quelle certezze dell’oggi che gli consentono di guardare con relativa tranquillità al proprio futuro, ha la possibilità di portare i figli fino all’università, di fargli fare esperienze di viaggio per conoscere il mondo, di fargli praticare sport e una vita di relazione facile e relativamente agiata: io stesso vengo da questa prima Cagliari; e c’è la Cagliari degli esclusi, o dei marginali, dei precari, la Cagliari che vive nei quartieri di periferia, nell’edilizia popolare, e se la discute ogni giorno con la precarietà del lavoro e dunque del salario, delle entrate necessarie a mettere insieme pranzo e cena, e ad evitare il rischio dell’abbandono scolastico dei figli, e quello del risucchio in attività non lecite: sono 6.500, a Cagliari, le case popolari, e se ipotizziamo una media di 4 persone a famiglia, si tratta di 30mila cagliaritani, di nostri concittadini, maggiorenni e minorenni. Un quinto, ed anche più, dell’intera popolazione vive in situazioni di povertà e di rischio. Di recente la stampa ha scritto che sono un migliaio i cagliaritani che campano dello spaccio e dell’indotto dello spaccio… Deve essere un problema per noi? Possiamo fare spallucce a questo?
A questo aggiungiamo un fenomeno nuovo. La prima Cagliari, quella che ha mandato i propri figli all’università, vede i propri figli emigrare, rimanere disoccupati, non avere un futuro. Le due Cagliari, forse, nei prossimi decenni si incontreranno in una esistenza misera. Si incontreranno in basso, se il quadro politico rimane lo stesso».
Lobina inserisce questa sua prima osservazione in un quadro etico-sociale che mi trova pienamente, direi perfino drammaticamente, consenziente: guarda alla necessità ed urgenza dell’inclusione delle fasce sociali più deboli all’interno di un range civico che riconosca, non a parole vuote, ma per le opportunità concrete, e i meriti dimostrati, la pari dignità di tutti.
Non appiattisce però tutto in una pratica assistenziale, che fotografa il reale e lo ingessa, lo lascia come è, rinunciando ad ogni intervento effettivamente risanatore e riformatore, di promozione umana e sociale. Al contrario: associa il recupero inclusivo ad uno slancio di sviluppo totale, per cui è nello sviluppo largo e pieno della città, dell’Area metropolitana ora in fieri e della Sardegna intera che egli individua le variabili di restituzione ai poveri – valga finalmente la parola! – della loro soggettività civica. Ciò nell’offerta effettiva di occasioni di lavoro (e magari in una qualificazione professionale da acquisirsi nei tempi di fermo) e nell’integrazione senza difetti, con diritti e doveri precisi, all’interno della rete dei servizi pubblici.
Ma dire sviluppo generale significa entrare, in quanto super-soggetto amministrativo, in una dimensione politica che poggia su due pilastri e obiettivi: in primo luogo, il reciproco riconoscimento fra le diverse aree sociali e le loro rappresentanze (nella consapevolezza che la sorte finale sarà quella derivante, di necessità, dalla alleanza che si saprà definire: «ci si salva insieme, o si perde insieme»); in secondo luogo, il posizionamento di Cagliari in un sistema di relazioni attive concordato con le altre maggiori città d’Italia per negoziazioni di bilancio, ma non solo di bilancio, con il governo di Roma e con quello di Bruxelles.
Insiste argomentando su questi due poli, Lobina: «la Cagliari della sopravvivenza deve riconoscere la funzione trainante di quella che per esperienza ha capacità di generare sviluppo, quella del benessere deve riconoscere dignità e capacità di lavoro a quella povera. Il rinascimento di Cagliari è legato allo sviluppo che da “parallelo” deve diventare “combinato”, fra le due Cagliari: ogni parte deve riconoscere la necessità dell’altra o del contributo dell’altra per il proprio stesso destino, deve riconoscere i potenziali dell’altra, la ricchezza delle diversità, la sostanziale parità dei diritti e i doveri che vanno esercitati nell’interesse di tutti, in un convergente obiettivo civico. Ad oggi invece, questo disegno di integrazione, di riconoscimento reciproco, di collaborazione che il Comune in quanto istituzione avrebbe dovuto guidare, non s’è tradotto in realtà. La maggiore efficienza di qualche servizio non significa partecipazione, non significa affermazione di uno spirito comunitario che deve essere tessuto, nel tempo, a livello di base. Il sindaco Zedda, in questo compito specifico, che è anche un compito nobile, di guida politica con la P maiuscola, ha fallito completamente».
Abbiamo raccolto, sul tavolo, Lobina ed io, le tabelle dell’ultimo censimento e le rilevazioni che aggiornano quasi ad horas quei dati.
«Abbiamo un numero doppio di settantenni rispetto ai diciottenni: 2.100 contro 1.100. La piramide dell’età conferma che non facciamo più bambini, che ci stiamo estinguendo. Sono di più coloro che hanno tra gli 80 e gli 84 anni, che non quelli fra zero e quattro anni, o tra 15 e 19 anni. In quest’ultimo quinquennio sono nati meno di mille bambini all’anno, ed i morti sono stati una volta e mezza, 1.600 ogni anno… L’età media dei nostri residenti supera i 47 anni, e nel 2002 era inferiore ai 43. L’indice di vecchiaia è passato da 178,1 a 258,2. Non occorre essere esperti di statistica per comprendere le dimensioni del fenomeno…».
Nel frattempo abbiamo un rinforzo delle presenze straniere, sta venendo su una prima generazione di sardi d’origini filippine, cinesi, indiane, africane…
«Sì, Cagliari è una città accogliente, conosco tanti insegnanti delle scuole primarie che hanno in classe più bambini di radici non sarde che non nostri… E’ bellissimo, sotto un certo profilo, sia sociale che culturale, si tratta di un arricchimento… Ciò non toglie che dobbiamo avere consapevolezza di quanto incisiva sia questa novità crescente. Noi abbiamo in città circa ottomila stranieri che in modo più o meno stabile hanno fissato qui la loro residenza familiare e di lavoro. Gli aumenti sono costanti e consistenti. Noi diminuiamo, come in generale diminuiscono gli italiani della penisola, dove pure si rafforzano le presenze di comunità provenienti dai diversi continenti. Secondo alcuni studi demografici, fra trent’anni la popolazione sarda potrebbe retrocedere di circa trecentomila unità. Saranno risorse sostituite da altre originarie dell’Asia o dell’Africa? Il tema della estinzione dei sardi come rischio effettivo, se il trend già rilevato si affermerà senza possibilità di recuperi, dovrebbe essere fra quelli in cima alla riflessione critica di una classe dirigente degna di questo nome, che sa vedere in prospettiva e non si perde nel contingente, anche se deve avere consapevolezza del contingente… Salvatore Mannuzzu ha scritto, per l’editore Einaudi, di quel “Finis Sardiniae” che dovrebbe farci pensare. Naturalmente sappiamo che non si tratta soltanto di numeri, di quantità, ma anche di un senso identitario che evolve, vorremmo comunque sempre in positivo. Del volume sulla Sardegna uscito nella collana delle regioni italiane consiglio la lettura al sindaco Zedda, al presidente Pigliaru e a tutti quelli che dovrebbero avere a cuore la sorte comune».
Le radici sarde, gli affacci nel vasto mondo
Lungo quarant’anni ho realizzato decine, forse centinaia di interviste, proponendone la simulazione sui giornali, nei libri, nell’web. Mi è sempre parso importante collocare anagraficamente il mio interlocutore, dare scenario di storia alle sue spalle. Anche stavolta: tanto più perché Enrico Lobina è un protagonista del gioco politico d’oggi che sembra non voler prescindere dai tessuti di dottrina politica come si sono sviluppati, anche in Sardegna, in tutto il Novecento, pur se pare, nel contempo, estraneo a tentazioni fideistiche anche di certo radicalismo socialista fascinoso perché assiomatico. Per capire quanto della storia che ha formato la mia generazione appartenga anche al suo vissuto, quanto delle idealità che hanno sostenuto la grande e bella avventura della mia repubblica nata dalle macerie della dittatura e della guerra, dai progetti delle forze antifasciste e dal lavoro degli italiani di tutti i ceti, entri anche nel suo mondo, lo interrogo colloquialmente, e lui si presta, con leggerezza, a dichiararsi.
«Sono del 1979 – così si auto presenta –, e sono cagliaritano ma figlio di padre di Sadali – Barbaglia di Seulo – e madre di Mandas, cuore della Trexenta. Mio padre, trasferitosi a Cagliari da giovane per studiare, veniva da una famiglia di origini pastorali. Lui stesso, addirittura ancora bambino, aveva fatto il pastorello, non era stato incoraggiato a stare sui libri. Aveva frequentato la prima classe di avviamento professionale a Seui, dove andava ogni giorno facendosela a piedi, successivamente – quasi per scappare da un contesto che lo stava imprigionando in un futuro di povertà, forse appena di sussistenza – riuscì a venirsene a Cagliari. Qui studiò, emigrò, e poi tornò e frequentò l’università. Ha lavorato una vita alle Ferrovie della Sardegna, ne è stato capo del personale viaggiante. Lui stesso aveva viaggiato sui treni fino al 1984. Ricordo lunghi pomeriggi trascorsi, da bambino, alla stazione di piazza Repubblica… Mia madre invece viene da un ceto un poco più agiato, di piccoli proprietari terrieri. Quello mandarese era un parentado piuttosto impegnato sul piano sociale/associativo, sia nella DC locale che nella Coltivatori diretti: mio nonno era anzi un referente di territorio della Coldiretti, che allora era una organizzazione del tutto collaterale ai democristiani. Mio bisnonno, sempre nel filone materno, aveva invece combattuto nella grande guerra, inquadrato nella Brigata Sassari. Morì in guerra, si trova sepolto a Monte Fiore, nel Vicentino. Era abbastanza acculturato, scriveva assiduamente alla famiglia, e si prestava a scrivere le lettere che gli dettavano i commilitoni analfabeti… Anche mia madre venne, da ragazza, a studiare a Cagliari, si conobbe con mio padre proprio all’università, nei primi anni ’70. Lei poi si è impiegata in banca: per questo, da bambino, mi capitava nel pomeriggio di passare ore alla stazione ferroviaria, piuttosto che stare da solo in casa».
Infanzia e adolescenza tranquille dunque?
«Sì, penso sempre a come io sia cresciuto tutto sommato in una sobria agiatezza, e ci penso soprattutto quando, tanto più in questi ultimi anni in cui sono stato consigliere comunale, mi sono più intensamente occupato della questione sociale di Cagliari, ma proprio dal punto di vista umano prima che sociologico, dico della quotidianità di vita di tante persone , di tanti bambini e ragazzi che ho conosciuto… La mia vita cagliaritana si è svolta in un quartiere direi residenziale, di ceti medi chiamali borghesi. Ho avuto una infanzia e una adolescenza serene, molto impegnate e soddisfatte. Ho frequentato le elementari di via Garavetti, in zona di Monte Urpinu, le medie alla Ugo Foscolo allora in via Dante. Le superiori allo Scientifico: il primo anno al Pacinotti, gli altri quattro al Michelangelo, in via Grazia Deledda e piazza Giovanni».
E’ capitato anche con Guido Portoghese di parlare del Pacinotti degli anni ’80-90.
«Io sono più giovane di Guido, i miei anni sono stati tutti ’90. Al Pacinotti capitai in un anno turbolento, per via dei tagli di spesa decisi dal ministero della Russo Jervolino, con conseguenti mobilitazioni e occupazioni degli studenti. Allora il Pacinotti era un megaliceo, con più di duemila studenti e i doppi turni. Iniziai alla sezione Q che fu smembrata e dopo il primo quadrimestre finii nella sezione I. L’anno successivo mi trasferii al Michelangelo, sezione B. L’ambientamento fu un po’ faticoso. Passando alla sezione D ebbi la soluzione di tutti i problemi. Ottimo corso, mi maturai nel 1998 con 56 su 60. Ricordo il recupero della matematica in 4.a: dal 4 passai all’8».
E oltre la scuola?
«Lo sport: per due anni, fra le elementari e l’inizio delle medie, ho fatto sport agonistico: tutti i giorni feriali due ore in piscina, e un’ora settimanale di atletica, di corsa precisamente. Ho anche giocato a calcio e praticato il basket. La statura mi aiutava».
Amicizie rimaste nel tempo, partendo dalla scuola?
«Fra i compagni delle medie ho avuto un bel rapporto soprattutto con Pietro Ulzega, che era figlio di un professore di geologia e di una pediatra. Molto amico sono stato anche di Giacomo Bassi, figlio di Francesco, che era allora redattore de “L’Unione Sarda”, e di una Zedda Piras della famosa famiglia di industriali enologici. Si è trattato di amicizie che hanno favorito un certo livello culturale, che mi ha fatto bene. D’altra parte, onestamente, non è che fossi uno da trascinare: facevo il mio con diligenza, qualche volta anche troppa. Per esempio a 11-12 anni fui tentato dalle prime letture nientemeno che di Marx: era la sua biografia e avevo capito il suo pensiero come lo poteva capire un ragazzino di quell’età che si era incuriosito al personaggio storico il cui nome ricorreva spesso nelle polemiche o nelle discussioni fra grandi, sui giornali o in televisione. Curiosità legittima, mi pare. Lessi la biografia di Marx nella edizione di Laterza, a Vigliano, vicino a Biella, nella villa della famiglia Bassi. Dopo quella lettura comunque mi dedicai sempre molto ai libri, avevo un grande desiderio di sapere, di imparare. E mi pareva di riuscirci, però unendo alle letture – che erano belle perché non erano obbligatorie, erano fuori programma scolastico – i rapporti sociali. Insomma, ho sempre avuto una vita di relazione abbastanza movimentata, e anche quelle esperienze di incontri, di conoscenze personali con coetanei o adulti hanno allargato la mia visione delle cose, alimentando quelle curiosità sia del sociale che, per usare un’espressione importante, della politica internazionale. Quella curiosità era soddisfatta dalle riviste, dai libri, dai documentari televisivi o dai dibattiti che mi piaceva ascoltare, e poi è diventata una vera e propria passione, e uno studio organico quando sono arrivato all’università».
Che spazio hanno avuto le tematiche religiose in questo doppio canale formativo, fra formazione scolastica e formazione autogestita?
«Sia io che mio fratello, più piccolo di due anni ed ora neopapà, abbiamo avuto una educazione religiosa ordinaria, con la sequenza tradizionale di battesimo, cresima e prima comunione… e con il catechismo, soprattutto per la preparazione alla cresima e alla prima comunione. In quanto alle letture religiose di bambino o ragazzo direi che ero abbastanza fedele al “Piccolo Missionario”, un po’ informazione un po’ fumetto, sulla questione della evangelizzazione soprattutto in Africa. Una delle sorelle di mia madre, come d’altronde tutto il parentado di Mandas, era profondamente religiosa ed era legata ai padri comboniani, quelli che pubblicano “Nigrizia”, e anche agli amici di Raoul Follerau, che era stato la punta avanzata della lotta contro la lebbra nel terzo mondo. In famiglia noi avevamo anche alcuni lontani parenti che erano partiti missionari, per cui queste tematiche erano presenti in casa. Ho poi nella memoria di quando, stando in paese, a Mandas, soprattutto d’estate, vedevo riunirsi, la sera, attorno a mia nonna e alle mie zie, un bel giro di amiche che recitavano il rosario tutte assieme».
Quello era il parentado democristiano, ordinato e ospitale, vero? Ce n’era di così un po’ in ogni paese, trenta come cinquant’anni fa, conosco la tipologia.
«Sì, tutta gente molto rispettabile e rispettata: uno zio consigliere comunale della DC, molto legato all’onorevole Felicetto Contu anche per via della Coldiretti, e poi gli altri, tutti parrocchia e attività sociale. In più però direi – guardando alla generazione più giovane – che ho dei cugini impegnati anch’essi nel cattolicesimo di base, e ne ho una stima profonda, perché quello che dicono lo fanno, sono molto sensibili alle attività solidaristiche».
Le tematiche religiose
Cosa hanno fruttato quei semi o quegli esempi? Insisto perché quello religioso mi pare sempre un campo che spiega molto della personalità per come poi questa va a muoversi nella vita di relazione o anche sulla scena pubblica.
«Non molto sotto il profilo della pratica personale, cioè dal punto di vista della partecipazione al culto, molto invece sotto il profilo delle sollecitazioni sia morali che intellettuali, e poi nel risvolto sociale. Ho perso la pratica religiosa all’inizio dell’adolescenza, quando mi sono reso conto di non avere fede. In questo somiglio più al mio filone paterno che a quello materno. L’adesione religiosa com’è vissuta in Barbagia è di superficie, è cioè più in un certo esercizio di tradizione che nella interiorizzazione del messaggio religioso. E comunque una presenza di questi valori io l’ho avvertita negli anni della mia formazione: ci fu una fase addirittura Opus Dei, dato che una zia di Ulzega – Maria Vittoria Ibba – faceva venire per noi, da Roma, un dirigente che ci illustrava le cose secondo la sua visione, in lunghi pomeriggi…».
E comunque, sul piano sia intellettuale che delle relazioni istituzionali, in quanto consigliere comunale, in questi anni tanto i temi quanto i protagonisti della scena religiosa sono stati coltivati, da quanto ne so, con cura importante. So bene?
«Da consigliere comunale ho allacciato rapporti rilevanti con il mondo cattolico: la prima lettera che ho inviato da consigliere comunale l’ho indirizzata proprio all’arcivescovo Miglio, che non rispose – capii poi che l’aveva girata a Marco Lai, trattandosi di materia sociale. Come è notorio mi sono poi molto occupato del “caso” Cugusi e di Sant’Eulalia, ero tutto schierato a favore di un parroco di grandissimo valore umano, spirituale e culturale. Ho rapporti stretti molto positivi con il gruppo “Giorgio La Pira” e partecipo alle iniziative sociali-politiche della diocesi. Ho approfondito la conoscenza, molto stimolante, con don Cannavera, ed avuto contatti, anch’essi stimolanti, con Paolo Matta, che vanta una bella conoscenza del mondo cattolico cagliaritano e sardo. In questi anni ho letto molti documenti del Concilio Vaticano II, ho letto le encicliche di Benedetto XVI, compresa quella cofirmata da lui con papa Francesco – mi riferisco alla “Lumen fidei” –, ma anche la ”Laudato sì” di Bergoglio».
Poi gli studi si sono fatti più impegnativi, se so bene: l’università e i viaggi, o i viaggi a rinforzo degli studi. D’altra parte, gli ultimi anni del Novecento e i primi di questo nostro secolo sono gli anni della generazione Erasmus. E’ così?
«Si. Da bambino sono stato indirizzato, mettiamo, allo studio dell’inglese o dell’informatica – sacrificando magari le materie “dello spirito”, comprese quelle artistiche. I risultati hanno cominciato a venire col tempo, nel senso degli orizzonti larghi dei miei interessi che mischiavano storia, economia, politica, istituzioni nella dimensione internazionale. E credo sia proprio per questa sensibilità che mi sono costruito, anche con i viaggi, alle interrelazioni culturali e politiche, che vedo la necessità della promozione della Sardegna a forme di autogoverno, naturalmente non secondo gli schemi superati, anzi superatissimi, dei separatisti di un tempo, ma di un sovranismo integrato in una dimensione continentale europea…».
Quali sono state le tappe di questo percorso di crescita delle esperienze in parallelo agli studi?
«In parte, come accennavo prima, il mio percorso formativo è quello di molti ragazzi della mia generazione. La base è Cagliari però: il grosso della mia vita nella fase della infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza, come ho detto, è tutto cagliaritano. Dai tempi degli studi universitari, e perciò di Erasmus, ho poi cominciato a viaggiare per il mondo: più per studio che per diletto, ma anche per diletto. Si impara di più quando concentrazione e distensione sono in giusto equilibrio… A dirla tutta in un soffio, direi che sono stato, per permanenze anche più o meno lunghe, in Germania, a Milano – un anno intero –, in VietNam, in Cina – un altro anno intero – e poi a Londra, Parigi, Napoli, ancora in VietNam. Quando sono stato fidanzato con una ragazza che studiava cultura araba a Napoli, ho girato con lei per la Tunisia, il Marocco, ecc. E poi Giappone, India, Sud-est asiatico, ma per brevi periodi».
Tutto questo dopo la laurea?
«Tutto questo durante e dopo l’università, facoltà di Scienze Politiche. Cagliari aveva una eccellente facoltà di Scienze Politiche, sia negli indirizzi amministrativo ed economico che in quello storico e internazionale. A me interessava. I miei avrebbero preferito mi iscrivessi a Giurisprudenza o magari a Medicina o in Ingegneria, ma a me interessavano veramente le relazioni internazionali e in particolare la storia, e anche il presente, dell’Asia orientale… Al terzo anno di università partii, con Erasmus, in Germania, e lì imparai abbastanza bene la lingua tedesca, mentre prima me la cavavo soltanto con l’inglese e un po’ di francese. E comunque riuscii a scrivere in tedesco la tesina richiestami alla fine dell’anno di Erasmus».
Se capisco bene, una gioventù passata sui libri e nella conoscenza del mondo: senza politica locale però. Sbaglio?
«No, chiarisco meglio. Studio e viaggi sì, ma anche voglia di autonomia, di guadagnarmi la vita con i miei mezzi, per quanto possibile, naturalmente: quindi avevo la fissa di lavorare per non essere di peso in casa e mi davo da fare a cercare piccoli lavori, piccoli ma continuativi: volantinaggio, guardiania, montavo palchi per concerti, e cose così… Quando ero al secondo anno di università – era il 2000 – svolsi il servizio civile presso il Tribunale Amministrativo Regionale come bibliotecario e assistente d’aula. Successivamente partii, per Erasmus, in Germania, come ho detto. Ero a Kiel, nel nord, vicino al confine con la Danimarca. La borsa di studio non mi bastava, e lavorai anche là. Lo stesso accadde, sempre con una borsa di studio, a Milano: pagavo troppo d’affitto ed allora finii a fare lo steward a San Siro. In Germania successe che imparai il sardo, sembra incredibile…».
Sì, curioso. Come fu?
«Lo spiego fra un attimo. Vorrei adesso precisare che la prima iscrizione ad un partito risale al 1996: Rifondazione Comunista. Nell’estate del 1997, appena diciottenne, lasciai la scuola ai primi di giugno per andare a lavorare per un mese alla festa nazionale (italiana) di “Liberazione”, il quotidiano di Rifondazione. L’impegno politico fu intensissimo. E nel 1998, tra maggio e giugno, sono stato candidato alle elezioni comunali, ho sostenuto l’esame della patente e preparato la maturità. Subito dopo, insieme al circolo in cui militavo, sono passato ai Comunisti Italiani e sono stato per diversi anni il responsabile italiano scuola ed università della Federazione Giovanile Comunista Italiana».
Interessante, Lobina ipercinetico. Torniamo un attimo al sardo studiato in Germania, ai confini con la Danimarca. Mi viene da pensare che a Copenaghen vive da più di mezzo secolo Maria Giacobbe, la nostra grandissima autrice di “Diario di una maestrina” e di tante altre belle opere. Saranno stati influssi virtuosi…
«Magari è così. In Erasmus lessi le poesie di Peppino Mereu, il poeta di Tonara di fine Ottocento. Morì, mi sembra, a trent’anni soltanto, giovanissimo, nel 1901. E’ stato uno dei grandi della letteratura sarda, l’autore di “Nanneddu meu”, e Peppino mi ha conquistato. Imparare a parlare il sardo è diventato per me, allora, un obbligo morale, forse anche un obbligo politico. Lessi allora, sempre nell’anno tedesco di Erasmus, anche il “Capitale” di Marx, in italiano però… Non fu una lettura dogmatica, mi allargò la mente… Il comunismo filosofico che si era tradotto concretamente nei regimi dell’Europa orientale era caduto già da dieci anni grazie a Gorbaciov, di cui avevo sentito parlare quando ero in quinta elementare».
E dunque, l’impegno politico vero e proprio quando è arrivato?
«La politica è stata una passione da sempre, ma non è stata una passione separata dal resto dei miei interessi, dalle letture o dalle esperienze di studio o di viaggio… Quando mi iscrissi a Rifondazione Comunista – dopo la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra – ero in seconda liceo scientifico. Da almeno due anni, dalla terza media cioè, avevo scoperto l’arena politica: seguivo i dibattiti in televisione, leggevo i giornali, tutti i giornali quotidiani o settimanali che entravano in casa, li leggevo con voracità, con gusto. Ero un ragazzo ovviamente, non uno specialista, ma cominciai a prendere i fondamentali, a orientarmi… Intorno ai 16-17 anni mi appassionai tanto da sentire la politica proprio come “scelta di vita”: mi detti alla lettura dei testi del marxismo internazionale, nazionale e sardo, alla lettura di Gramsci. Appena diventato maggiorenne conobbi una ragazza cui sono rimasto legato fino ai 24 anni: era una gran studiosa, mi trasmise questo suo entusiasmo e anche il suo metodo di studio, mi rinforzò in questo interesse alla politica che era crescente in me… Da allora ad oggi, per restare sul punto, ho fatto molte cose, compresa l’esperienza di consigliere comunale. Ma prima che consigliere comunale sono stato consigliere di circoscrizione, a San Benedetto: dal 2006 a fine 2007, lavoravo nelle commissione Bilancio e Lavori pubblici. Nel settembre 2014 mi hanno chiesto di entrare nella Fondazione Sardinia, espressione originale di un’area politica o politico-culturale larga, che mi interessa perché si sforza di mettere la Sardegna nel contesto di un mondo che cambia».
Torniamo agli anni della formazione. Arriva la laurea: siamo nel?
«Siamo nell’aprile 2003. Massimo dei voti, 110 con lode, tesi di storia asiatica sud-orientale, focus sul VietNam della svolta del 1986 (Doi Moi). Nel 2005 e 2006 sono stato anche invitato a tenere qualche lezione nella mia facoltà».
Il Vietnam e la Cina
Da studente a studioso. Ho visto – anzi ce li ho in biblioteca a casa – alcuni di questi contributi saggistici alla storia vietnamita, alcuni molto corposi, come “Viet Nam: le radici della resistenza” e sottotitolo “Consenso e strategia militare del Partito Comunista Indocinese nel nord Viet Nam tra il 1941 ed il 1945”, uscito nel 2010: quattrocento pagine, dieci capitoli e sessantacinque paragrafi, quasi trecento rimandi bibliografici, una scheda cronologica interessantissima sulle vicende indocinesi e dell’area comunista dell’estremo oriente dal 1945 al 2008, che sono storia conosciuta – almeno nelle sue dinamiche di fondo – dalla mia generazione…
«Quella è la tesi del mio dottorato di ricerca in Storia, Istituzioni e Relazioni Internazionali dell’Asia e dell’Africa in età moderna e contemporanea. L’ho pubblicata con una prefazione della professoressa Annamaria Baldussi, autrice lei stessa di saggi sulla materia, fra cui ricordo adesso quello che seguì di poco la fine del conflitto con gli USA, “Dal passato alla guerra. Cina, Viet Nam, Cambogia nel 1978”. Tempo quasi ancora di Mao e Chou En Lai in Cina, allora scomparsi da un anno o poco più. Ho Chi Minh, il mitico presidente del Viet Nam comunista, quello del nord, li aveva preceduti nel 1969, quando anche si erano fatti più violenti i bombardamenti USA sulle città e le campagne vietnamite».
Chi oggi ha sessant’anni e da giovane aveva già maturato una sua coscienza politica, un interesse alle cose del mondo, ha memoria di quelle lontane cronache di guerra e dei movimenti pacifisti che avevano una presenza in tutte le città europee ed anche a Cagliari. Io stesso, con i giovani repubblicani di Cagliari, che pure erano chiaramente occidentalisti – europeisti, filoisraeliani e filoatlantici, ancora affascinati dal kennedismo di John e Robert e dalle correnti progressiste di Martin Luther King, ucciso nel 1968 come Robert Kennedy –, nei primissimi anni ‘70 partecipai a qualche corteo, con le altre federazioni giovanili democratiche, per la fine della guerra…
«La politica internazionale e in generale la storia delle relazioni fra gli stati, e non soltanto fra gli stati, anche fra le istituzioni sociali e culturali, è una materia di studio di estremo interesse e fascino. Nel piccolo ho poi vissuto personalmente, in altre forme, le dinamiche presenti sul vasto scenario del mondo: ero giovanissimo, mi pare avessi 24 anni, quando mi hanno affidato la guida di gruppi di italiani in visita in Estonia, in Finlandia, in Russia… Ma oltre al tour leader ricordo il grande impegno che misi per vincere una borsa di studio e frequentare la School of Oriental and African Studies di Londra, la famosa SOAS: però non fui accolto, una bella delusione… Credo che a danneggiarmi fosse stata una lettera di presentazione poco convinta del professor Francesco Pigliaru…».
E allora?
«Allora adottai il piano B: utilizzai la borsa di studio per frequentare un master a Milano organizzato dall’ISPI, un istituto governativo che forma diplomatici e quanti sono interessati ad operare in campo internazionale: i primi quattro mesi furono intensissimi, studio di diritto, economia, relazioni internazionali, l’inglese e una seconda lingua, seguirono altri otto mesi impegnativi sì ma meno stressanti. Potei coprire bene alcune lacune, approfondendo il francese e il tedesco oltre che l’inglese. Ebbi la soddisfazione di essere riconosciuto come miglior studente del corso e mi premiò De Michelis, che era stato ministro degli Esteri. Oggi il presidente onorario dell’ISPI è Giorgio Napolitano. Ricordo che il direttore dell’ISPI all’inizio mi aveva mostrato una certa diffidenza, di cui non ho mai saputo le ragioni, anche se posso intuire fossero di natura ideologica, essendo lui ovviamente un ministeriale, mentre alla fine mi premiò con tanti complimenti… invitandomi a restare nel giro».
Belle esperienze, e sode. Poi, per arrivare fino ad oggi, cosa c’è stato?
«Nel 2004 conquistai un dottorato di ricerca, però senza borsa, quindi dovetti riprendere a lavorare per mantenermi. Dopo l’anno trascorso all’ISPI di Milano frequentai uno stage ad Hanoi, la capitale vietnamita. Era la prima volta che andavo così lontano, e ci andavo per svolgere anche ricerche su materiali archivistici del tutto inediti: furono tre mesi trascorsi nell’ambito dell’Organizzazione internazionale del lavoro, più precisamente nell’Associazione storica vietnamita (che curava la storia del Partito comunista vietnamita). Svolsi quella ricerca fra diverse difficoltà. Quegli archivi custodivano ancora dei documenti relativi al periodo della colonizzazione francese. La maggior parte di questi i francesi se li erano portati via lasciando l’Indocina, e si trovano ad Aix Saint Provence, sono di più facile accesso».
Quali i risultati di questo lavoro?
«Ad Hanoi partecipai anche a varie conferenze di studio per conto dell’OIL: per esempio sul lavoro giovanile, in una conferenza bipartita fra organizzazioni datoriali e di lavoratori, o sulle politiche di riduzione della povertà, o ancora sull’entrata del VietNam nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, quella che ha dato l’impulso decisivo alla globalizzazione. Frequentai corsi sulle microassicurazioni per i poveri o sulla protezione sindacale del lavoro minorile».
E a seguire?
«Quando tornai dal VietNam vinsi una selezione presso il ministero degli Affari esteri, alla Farnesina: sezione italiani all’estero e politiche migratorie. Nel 2006 partecipai ad un concorso bandito dalla Regione per esperto in politiche comunitarie, fui tra i vincitori e iniziai a lavorare nel marzo 2007, come funzionario assegnato all’assessorato dell’Agricoltura. L’agricoltura è uno dei settori dell’economia che maggiormente risente delle politiche comunitarie e che, come nella pesca e nell’acquacoltura, ha uno dei suoi potenziali naturali più interessanti in Sardegna (penso a Cabras, Santa Gilla ecc.). Lavorai al Programma di Sviluppo Rurale, in un team presso il direttore generale dell’assessorato che è chiamato Autorità di Gestione. Intanto però conclusi il mio dottorato di ricerca, quello sulla storia del VietNam. Era il dicembre 2007, ebbi una buona votazione finale».
E il contratto con la Farnesina?
«Quello era finito già nel 2006. Però il giorno dopo la conclusione del periodo di prova, in Regione Sardegna, chiesi un’aspettativa per andare a lavorare a Pechino. Avevo trovato lavoro con l’ONU. Si erano sovrapposti questi impegni di studio e di lavoro, dottorati, Farnesina, Regione e dovetti mettere ordine e seguire priorità. Avevo un grande desiderio di vivere l’anno delle olimpiadi a Pechino e quindi cercai lavoro a Pechino, proprio nel quadro di quelle competenze maturate in relazioni internazionali: riuscii a stare in Cina pressoché per tutto il 2008 inquadrato nella cooperazione allo sviluppo dell’ONU, materialmente con ufficio nell’ambasciata italiana. Un’esperienza eccezionale, potei anche girare nelle maggiori città e imparare un po’ di cinese. Fu una full immersion. Fortunatamente sono riuscito a mantenere in equilibrio tutte le mie facoltà e a pilotare la fuoriuscita da quel sistema cinese, veramente totalizzante anche se con mille pulsioni modernizzanti, rientrando in Sardegna, dove avevo deciso di tornare anche per restituire alla mia terra quello che la mia terra mi aveva dato».
Se posso azzardare una impressione, mi pare una vita un po’ da film, avventurosa, rischiosa ma anche appagata.
«Lo riconosco. Faccio però questa considerazione che parte dal racconto autobiografico di una mia amica vietnamita: mi diceva che all’età di sei anni girava ancora scalza, non si poteva permettere le scarpe, a nove anni mangiò per la prima volta carne tale era la miseria della famiglia, ed oggi, trentenne, lavora in una multinazionale francese, parla quattro lingue, vive in un palazzo di quindici piani servito da fibra ottica ad Ho Chi Minh City. Ecco: la velocità di vita di questa amica trentenne del VietNam l’ha portata a risultati che a noi sardi sono costati due, forse tre generazioni. Quello che in Inghilterra è costato tre secoli, questa ragazza l’ha avuto dalla ipervelocità del nostro tempo in questa prima fase della sua vita… Abbiamo bisogno di riparametrare molto, nella nostra vita personale e in quella di relazione, nella vita delle comunità, delle nazioni ecc. nel loro rapporto fatto di scambi materiali e culturali… La modernità arriva ovunque, ma la ipervelocità tecnologica del mondo capitalistico avanzato può marcare nuove separatezze, nuovi colonialismi…».
L’esordio in Consiglio comunale, anno 2011
Dunque è da questo background che cinque anni fa è scaturita la nuova esperienza che, in un modo o nell’altro, ci ha coinvolti tutti. La dico dal mio punto di vista: dopo tanta Democrazia Cristiana e tanto Partito Socialista, dopo tanto ancillume degli altri partiti, il mio compreso, dopo tanta inadeguatezza della stessa opposizione (in verità apparente più che reale) del PCI-PDS, nel 1994 la nuova legge elettorale comunale e la statura dell’algido eletto sindaco Delogu (non votato da me) fecero sperare in un salto di qualità della politica amministrativa a Cagliari. Così non fu, e peggio ancora fu con Emilio Floris. Qualche strada intitolata ai fascisti in ripago dell’astinenza di molti anni, certo anche qualche buona iniziativa negli abbellimenti pubblici, qualche disastro ereditato e proseguito e magari implementato, il degrado sociale continuato fra le elemosine di alleggerimento delle belle coscienze. Nel nome di Massimo Zedda, forse per l’età, forse per la verginità sostanziale del suo nome, molti hanno (abbiamo) immaginato un’altra politica. Certamente il Consiglio comunale ha conosciuto un rinnovamento non da poco, e il cambio di maggioranza ha perfino fatto supporre che la Casa Nuova bacareddiana potesse finalmente replicarsi. Delusione piena.
Lobina qui è chiamato anche a rendere conto per quanto egli sia stato partecipe della maggioranza di giunta. Deve spiegare come ha visto la città, quale sia stato il suo impegno per una politica “alta” e realizzativa, nella logica della città inclusiva e comunitaria, obiettivo comune dichiarato.
«Oggi – questa è la sua prima osservazione – la società è condizionata, a tutti i livelli, dalla crisi economica. La povertà, come condizione di vita, di molti nostri concittadini, precedeva la crisi ed ha attraversato l’intero decennio, e l’abbiamo ancora oggi con qualche illusione di meno circa il suo assorbimento».
Intanto possiamo dire che la povertà, o la marginalità, di ampie fasce sociali nella nostra città riflette obiettive inadeguatezze anche della politica regionale e di quella nazionale? Non andrebbe visto tutto in un’ottica non soltanto cittadina. Inquadrare così il problema forse aiuta a individuare più precisamente le responsabilità locali. Possiamo seguire questo schema?
«Sì. Però una premessa: piuttosto che “della politica regionale e di quella nazionale” io preferirei dire “della politica sarda e di quella italiana”. Utilizzando tanti criteri interpretativi, di diverse origini, possiamo dire che la Sardegna è una nazione, anche se magari non vuole essere indipendente, cioè farsi stato, ma credo che in Sardegna dovremmo abituarci a parlare e scrivere di “politica sarda” e “politica italiana”, perché quella italiana non è la politica nazionale».
Debbo interloquire, per non condividere. il passaggio per me è quasi dirimente, anche se non colpisce di necessità la sostanza della analisi sociale che, con Lobina, potrei condividere. Io contesto la dizione «politica italiana» in opposizione a «politica nazionale»: perché se posso ben ammettere che la politica del governo o del Parlamento nelle sue varie maggioranze politiche non sappia esprimere la dignità del respiro nazionale, della patria comune cioè – quella derivata del risorgimento democratico, quella della repubblica nata dalla testimonianza dell’antifascismo e dalla fatica della resistenza –, certo è che opporre «sardo» a «italiano» è una forzatura e mi pare quasi un non senso. Questa modalità espressiva potrebbero infatti adottarla anche la Lucania o la Calabria o altri ancora, sentendosi questa o quella regione anch’esse trascurate dalla politica centrale delle leggi parlamentari e dagli atti dei ministeri, e la sagoma ideale dell’Italia dovrebbe sminuzzarsi perdendo, volta a volta, i periferici mal compresi o misconosciuti… Se non ci pare adeguata la formula «politica nazionale», sarebbe più pertinente chiamarla allora, a mio avviso, «politica ministeriale». E che sappiamo inadeguata, anche oggi. Chiusa parentesi.
«Per tornare alla domanda – riprende Lobina – , certamente è così, ma l’amministrazione di Cagliari di questi ultimi anni non ha fornito alcun contributo a cambiare la rotta. E alla povertà materiale di molti ha lasciato si associasse la povertà in termini di incertezza del futuro di una, due generazioni intere, anche di molti che vengono da ceti meno oppressi. Il contesto universitario è molto indebolito: chi si specializza fuori Sardegna qui non ritorna. Siamo in pieno fenomeno di denatalità: i giovani con un futuro incerto tardano a fare famiglia, sono tentati di non far mai figli… Con i genitori senza lavoro, senza possibilità e senza stimoli, centinaia di ragazzi sono a rischio di dispersione scolastica, di abbandono dell’università quando ci arrivano. Questa è la realtà non soltanto cagliaritana, ma anche dell’hinterland, della provincia, della regione intera. Siamo prigionieri di un contesto che, cercando di sopravvivere, non sa darsi obiettivi, priorità, direi addirittura – ed è una cosa grave – che non sa immaginarsi il futuro anche perché ha perduto il senso del suo passato, non conosce o non riconosce più lo spessore storico della vita collettiva come si è sedimentata nel tempo, generazione dopo generazione…».
Approfondiamo questo argomento.
«Nella memoria delle generazioni passate – includo quella stessa dei miei genitori – c’erano ancora le difficoltà legate alle durezze della guerra, così come c’erano i condizionamenti educativi della dittatura, della scuola del regime, dell’organizzazione sociale come il regime l’aveva impostata. Così, tanto sul piano materiale quanto su quello ideale, alla fine della guerra che coincideva con la fine del fascismo, c’era stato un bisogno di voltar pagina, di iniziare un percorso nuovo, di accrescere il benessere personale e familiare e il livello culturale. Istruzione e libera cultura da una parte e benessere per stabilità lavorativa e gestione misurata del reddito, modesto ma certo, dall’altra, erano alla fine un solo obiettivo. Un domani di vita di qualità, un progetto di vita personale e familiare, un’affermazione sociale e professionale».
Oggi invece?
«Oggi il disagio economico troppe volte diventa passività, e il torto grande della politica che fa capo agli amministratori sardi ed a quelli locali è di non avere favorito l’emancipazione da questa passività, anzi di averla cullata con la pura assistenza, magari punendola anche con provvidenze che andavano in diminuzione per ristrettezze di bilancio, ma comunque senza mai offrire uno sguardo largo, un progetto di riscatto, di liberazione, direi un ambiente propizio all’autoliberazione. Tutto è lasciato al volontariato, che peraltro fa grandi cose, ma è volto essenzialmente esso stesso alla assistenza. E così non si va avanti».
Sono ritardi soltanto nostri?
«Oggi hanno preso corpo movimenti portatori di nuove proposte politiche, che poggiano sulla volontà di superare un duro vissuto collettivo, in Grecia, in Spagna, in Portogallo, anche in Turchia. In questi paesi si sta allargando la partecipazione sociale in direzione del nuovo, del moderno ma anche del giusto, del democratico. Il contrario forse di quel che registriamo nei paesi dell’est europeo, dove il ricordo (forse vago nelle generazioni più giovani) del passato comunista è sfociato in un iperindividualismo egoistico che le classi dirigenti assecondano con le loro politiche neoliberiste prive di una sensibilità comunitaria, di una attenzione alle fasce deboli e ai diritti della democrazia critica: lo vedo nella repubblica Ceca, in Slovacchia, in Ungheria, in Polonia. Oggi la destra comanda e avvelena l’est già comunista. Anche nei paesi arabi, pur nella diversità fra l’uno e l’altro della carta geografica, si vivono situazioni di movimento, certamente contraddittorie. I giovani acculturati, che conoscono le nuove tecnologie ed hanno una preparazione anche informatica, che sono interessati agli scambi con la modernità occidentale, portano istanze che legano insieme il bisogno del benessere a quello di una maggiore libertà democratica. Nella pratica, tuttavia, i risultati sono opposti a quelli sperati. Nel Medio Oriente sono fortissimi i fattori internazionali, sia vicini (Israele, Arabia Saudita, Egitto) che lontani (Stati Uniti, Russia, Iran)».
Caliamo adesso questa visione di scenario nella realtà nostra particolare. Parliamo della esperienza amministrativa in questo trascorso quinquennio, proprio approfondendo queste stesse valutazioni delle dinamiche sociali e dei fenomeni di massa.
«Parto da me. Sono stato eletto nella coalizione di centro sinistra, nella lista che univa Rifondazione Comunista ai Comunisti italiani, nonché a Socialismo Duemila, il movimento di Cesare Salvi. La scelta degli assessori, da parte di Zedda eletto sindaco al ballottaggio con Fantola, mi ha fatto da subito capire che egli si era alleato con la parte moderata, direi conservatrice, della città, sacrificando quella della quale più mi sentivo espressione, e comunque non servendo quella causa che ho chiamato prima del “reciproco riconoscimento” delle rappresentanze, il che sarebbe stato un volar alto…».
E quindi?
«E quindi ho rinunciato a una presidenza di commissione, ho chiesto di essere inserito in tre commissioni che consideravo strategiche: quella urbanistica, ambiente e verde pubblico; quella bilancio, politiche della casa e programmazione; quella dei servizi tecnologici, ciclo rifiuti ecc. Come capogruppo ho, peraltro, potuto seguire l’insieme delle politiche comunali. L’ho fatto sostanzialmente da solo, perché il collega con il quale ero in gruppo – Andreozzi, eletto nella lista dei Rossomori – di fatto fiancheggiava la giunta, rinunciando a stimolarla con la sana critica di cui essa aveva bisogno. Anche questo ha contato quando ho deciso di marcare ancor più la mia linea che era autonoma dalla maggioranza… confluendo nel gruppo misto».
Com’è stata in divenire questa nostra città agli occhi di un consigliere di sinistra, di maggioranza ma anche di quasi opposizione?
«Un’altra premessa: da diversi anni non uso più la parola sinistra. Mi dà fastidio, e credo che le persone normali non la capiscano. Io sto dalla parte del popolo, e voglio essere giudicato per le mie azioni, per quello che faccio e dico. In cinque anni di consiliatura ho riscoperto la città: oggi anche soltanto passeggiando a piedi o in motorino mi riesce di cogliere aspetti che prima… vedevo ma forse non guardavo con la dovuta tensione per comprenderli, così soprattutto nel campo sociale oltre che in quello materiale. Oggi ho una conoscenza della città che prima ammetto di non aver avuto. Mi sono occupato di tutti gli aspetti della gestione politica amministrativa della città, ho anche partecipato – unico sardo – al master formativo promosso dall’ANCI in materia di amministrazione municipale. Perché bisogna voler fare le cose, ma anche saperle fare…».
Quali sono stati i campi di maggior interesse?
«Mi sono occupato di una vastissima gamma di materie, dagli aspetti “alti” della pace e del porto nucleare, dello sviluppo economico con riferimento al ruolo pubblico nel mercato ed alla zona franca, alle questioni riferibili alle nuove tecnologie, alle politiche sul ciclo dei rifiuti, agli aspetti commerciali nel centro storico, alle aree umide (Santa Gilla sul piano ambientale e produttivo, Molentargius essenzialmente su quello ambientale), agli enti controllati o partecipati dal Comune che l’amministrazione Zedda ha del tutto trascurato, lasciando mano libera ai tecnici o agli uomini del PD, quando sovente gli uni erano anche gli altri. Mi riferisco ad Abbanoa, al CTM, al Cacip, alla Società ippica, al Teatro lirico, alla Multiservizi ecc. Insomma, mi sono occupato di tutti i temi importanti che impattano sul bilancio comunale: dai rifiuti alle politiche sociali, alla politica del personale, all’area tributi ecc.».
A proposito. E’ abbastanza diffusa l’opinione che il servizio tributi sia fra i peggio organizzati. Può essere?
«Il sindaco ha mancato clamorosamente nella informatizzazione del servizio tributi, e in generale degli uffici comunali. Ci avviamo alla chiusura della consiliatura senza aver fatto controlli. Per evitare le prescrizioni a fine anno si mandano migliaia di solleciti di pagamento, anche a quegli utenti che hanno provveduto, ai più corretti e disciplinati. Quella comunale è una burocrazia borbonica. Zedda, e con lui gli assessori, non si sono mostrati sensibili a questo che pure è un aspetto fondamentale della funzionalità del Comune, perché è l’altra faccia del famoso rapporto “cittadino/pubblica amministrazione” di cui spesso si parla e più spesso ancora si ciancia».
La vicenda di don Mario Cugusi alla Marina
Questo passaggio della conversazione con Lobina mi offre il destro per un’altra mia puntualizzazione. Anch’io, non potendo votare Fantola che esprimeva la destra qualunquista e plebiscitaria cittadina, mi espressi cinque anni fa per Zedda, proponendolo al buon giudizio dei repubblicani rimasti fedeli all’idea. Poi, nel tempo, ho dovuto prendere atto che Zedda non è un sindaco come l’avevo sognato. L’ho capito non tanto da una importante decisione amministrativa da lui assunta o non assunta, ma da un episodio minore eppure emblematico di una mentalità e anche di una cultura istituzionale (penosamente assente in Zedda): è stato quando s’è rifiutato di premiare lui, in quanto sindaco della città, una personalità d’eccellenza come don Mario Cugusi, perché desiderava non scontentare un altro e alto prelato tutto autoreferenziale e lui sì poco amato in diocesi – mentre a Firenze era stato addirittura il cardinale Piovanelli a esortare il Comune a dar pubblico merito a don Enzo Mazzi, il fondatore dell’Isolotto, nonostante il muso storto della curia. Insomma, a Firenze c’era un cardinale che dava dei punti in autonomia municipale al sindaco comunista di Cagliari, un assurdo! Ma che Zedda non abbia sviluppato alcuna empatia con la cittadinanza, altro che con il gruppetto del bar serale, o con gli operatori della televisione – magari per la ripresa diretta della processione di Sant’Efisio al ritorno – , è cosa nota. Un giovane botanico di Cagliari gli ha scritto più volte – ce n’è la testimonianza su internet – riferendosi al parco della musica, per l’attuazione del piano di collocazione dei busti dei musicisti o artisti cagliaritani, offrendone lui e la sua famiglia uno di particolare riguardo, celebrativo del Manca Serra. Gli ha scritto anche per la correzione delle segnalazioni depistanti i turisti sbarcati al porto e in marcia verso Castello. A lettera protocollata, il silenzio, una, due, cento volte. Ciascuno ne può raccontare. Zedda l’ho incontrato anche io, in pubblico, dai salesiani: incapace di dialogo, spropositato, sgangherato (cioè fuori dai gangheri) alle critiche fondate e documentate. Una delusione completa, invotabile per me. E auguri alla città, se sarà rieletto.
«Ho conosciuto don Cugusi – osserva Lobina riprendendo il filo del discorso – ed ho raccolto, con il collega Portoghese, quella proposta di pubblico riconoscimento al suo coraggioso lavoro alla Marina, lavoro sociale per la scuola e l’integrazione, lavoro educativo e culturale. Non potevamo entrare, evidentemente, e non siamo mai entrati, nelle questioni interne alla Chiesa. Il sindaco non voleva scontentare monsignor Mani, verso cui ha sfiorato la piaggeria, il quale Mani con don Cugusi aveva un conto aperto. La serata dedicata in municipio alle fatiche trentennali del parroco di Sant’Eulalia è stata però eccellente, molto partecipata, nonostante l’assenza del sindaco di cui nessuno s’è accorto. E d’altra parte direi che dal movimento cattolico nella sua articolazione cittadina io ho imparato molto in questi ultimi anni, l’ho ricordato prima. Ho già detto dei contatti abbastanza continuativi con associazioni e gruppi, e personalità singole, di quest’area ideale e culturale che offre alla città ampiezza di visione e testimonianza di vita. Il gruppo “Giorgio La Pira”, lo voglio ripetere, mi è fra i più cari».
Parliamo, a proposito di mondo cattolico, di uno dei campi in cui esso riversa molte energie, anche a Cagliari: mi riferisco al volontariato e, più in generale, parliamo – nell’ottica dell’esperienza maturata in questi anni di presenza in Consiglio comunale – delle politiche sociali.
«Mi pare d’aver accennato prima allo spirito con il quale mi sono impegnato in politica, tanto più negli ultimi cinque anni: ho voluto mettere il mio percorso intellettuale, fatto anche di quella certa dimensione internazionale maturata lungo due lustri, al servizio della città, e tanto più della città non riconosciuta eppure reale. Parlo delle fasce marginali. Vorrei dire che pressoché tutto quanto il lavoro svolto in Consiglio comunale, in aula e in commissione, anzi nelle commissioni, è stato indirizzato all’obiettivo di una città inclusiva – cioè senza esclusi, senza poveri costretti ai margini – e però di una città inclusiva non grazie all’assistenza elemosiniera, sbrigativa e deresponsabilizzante, ma inclusiva grazie a politiche di sviluppo coinvolgenti tutte le forze sul campo, private e pubbliche. Perché le diseguaglianze frenano lo sviluppo».
Le politiche sociali, la bassa soglia
Ma cosa fare nel concreto? Se non è possibile passare dall’assistenza alla promozione , cosa fare?
«Nel 2011 a Cagliari avevamo circa 300 senza fissa dimora; secondo la ASL quel dato va aggiornato a 450. Sono 450 persone, per la statistica si chiamano unità: per l’umanità ed anche per la sana politica si debbono chiamare persone. Noi abbiamo un fenomeno di urbanesimo straccione, di disperati. Dai paesi si viene in città, per dormire nelle strade della città, così non ci si deve vergognare di mostrarsi allo sbando nella propria comunità, dove si è conosciuti. Vi sono interventi di volontariato, taluno è protetto anche con fondi comunali, tanto più per la cena notturna, per qualche indumento di protezione, qualche sacco a pelo. Ma questo può valere per una stagione, poi se ne prende atto e ci si dà l’obiettivo di un superamento completo e possibilmente definitivo. Certo, si sa che molti non accetterebbero né la casa-famiglia né altre soluzioni di quel tipo, e allora bisogna puntare ad altro: a strutture di bassa soglia, direi di bassissima soglia, comunque di soglia più elevata del marciapiede, o dei gradini delle chiese. Dormire sui cartoni in strada avveniva un secolo fa. Se leggiamo “L’Unione Sarda” di cento anni fa, troviamo un’infinità di trafiletti sull’accattonaggio, sui barboni… Un secolo è passato invano? Dunque dormitori di bassa soglia, tali da non poter essere rifiutati perché non “imprigionanti”. E, se possibile, attività diurne di un qualche tipo, alternative comunque allo sbando. Ma si tratta solamente di un esempio. Punto primo: ci si deve porre il problema».
Sostengo la proposta della cosiddetta “bassa soglia”. Ne ho scritto vent’anni fa nella collana dei volumi “Partenia in Callari”, raccontando l’esperienza di San Sperate, modesta ma utile, necessaria, benedetta. Non sono, le case di bassa soglia, la soluzione, ma si muovono sulla linea del decoro personale e sociale, e debbono favorire il recupero e l’inclusione, il riscatto graduale, quando possibile. Il volontariato in partnership con il Comune o con l’Area metropolitana potrebbe gestire dieci di queste case leggere sparse sul territorio, che non debbono mai dare l’impressione della struttura chiusa a chi non potrebbe sopportarla, dato il degrado al quale è purtroppo arrivato.
«Mi impegnerò su questa direzione, ne voglio discutere in questi stessi giorni con la Caritas e altre associazioni che hanno esperienza nel settore. Ne verranno idee e progetti…».
Poi ci sono i quartieri dormitorio. Sembra un paradosso, ma da quartieri dormitorio abituati alle elemosine vengono molti voti alla destra. La sinistra è incapace della rappresentanza?
«Io non avevo fatto campagna elettorale a Is Mirrionis, a San Michele, a Sant’Avendrace, a Sant’Elia, a Santa Teresa, perché erano realtà che cinque anni fa, come ho detto, non conoscevo a sufficienza. Oggi credo di essere completamente addentro ai problemi di quelle comunità, soprattutto riguardo alle politiche abitative, della casa, di più diretta competenza del Comune. Conosco quelle situazioni, le ho portate spesse volte nel dibattito in Consiglio, purtroppo senza grandi risultati. Incredibile ma vero, il sindaco Zedda – uomo espresso da SeL e appoggiato dal PD – è stato il primo in Italia a dare attuazione a una facoltà accordatagli dal decreto Renzi circa il distacco dell’acqua a quegli immobili occupati abusivamente. Noi abbiamo le scuole abbandonate, che sono ora occupate da chi non ha casa e avrebbe soltanto il cielo di stelle sopra la testa, la notte… Anche in questo caso, si tratta solamente di un esempio».
Non può misconoscersi che la giunta abbia promosso importanti lavori pubblici, ad altri già impostati ha dato attuazione. Ma è lo spirito pubblico, il sentirsi comunità, che è mancato per assoluta inadeguatezza del ceto amministrativo. Forse peggio avrebbe fatto la destra, ma Zedda e il suo centro-sinistra saranno giudicati – e magari anche assolti dai più che poco indugiano ad analisi e riflessioni – per questa inadempienza. Ha senso dire questo?
«La giunta si è alleata con il sistema dei poteri forti, e non ha portato avanti atti importanti di pianificazione. E’ stata, quella passata, una Amministrazione forse riformista, attenta agli aggiustamenti, certamente non riformatrice. Invece bisognava introdurre elementi di discontinuità sia nella conduzione ordinaria del “far politica”, dell’interfacciarsi con il cittadino, sia nella interlocuzione con il governo di Roma e con quello di Bruxelles. Il sindaco di Cagliari ha in sé la forza per affermare un indirizzo nell’ANCI sarda, e l’ANCI sarda può spendere un suo peso nell’ANCI italiana, combattendo le politiche recessive dei governi. Invece, sotto questo profilo, è stata del tutto incapace, senza idee e senza volontà. Passiva. Eppure abbiamo visto i sindaci di grandi città assurgere a protagonisti politici, portare progetti di novità. Città grandi come Barcellona, Madrid, Atene, Napoli…,e magari anche città piccole come Lampedusa hanno saputo porre alla scena politica nazionale e addirittura comunitaria la propria soggettività, la propria esperienza civile. Si tratta di avere coraggio, di pensare in grande per portare avanti battaglie epocali e dare un contenuto politico alla amministrazione, evitando che prosegua il processo degenerativo socio-economico in corso. Da noi questo processo degenerativo sta portando alla desertificazione della Sardegna, alla emigrazione senza ritorno dei giovani. Cagliari, capitale della Sardegna, deve saper portare nella vita urbana una idea di sviluppo locale».
Diciamola più chiaramente.
«Penso ad iniziative coordinate che portino al rinascimento cittadino e isolano. Questo può e deve valere, con il sostegno delle istituzioni europee, relativamente alle direttrici dello sviluppo economico, anche nello specifico settore culturale e artistico, oltre però i limiti dei protocolli d’intesa riguardanti i musei. Penso all’università, che lamenta giustamente la privazione di mezzi da parte dello Stato, ma non si pone a sufficienza (anche in chiave autocritica) il problema di cosa essa debba rappresentare e fare per la società: manca un ampio aggiornamento dei docenti, manca l’informatizzazione, manca una vera e propria apertura internazionale. Oggi l’università, e lo stesso rettorato della Del Zompo, è collaterale al PD, e anche il presidente della Regione, che è stato al vertice dell’università come prorettore, si mostra nei fatti acritico verso il governo Renzi. La vittima si affida al carnefice, mi sembra un assurdo».
Necessaria una politica di discontinuità
Altri campi da innovare combinando la Sardegna (e la sua capitale) all’Europa?
«In generale tutte le grandi infrastrutture civili e produttive hanno un respiro continentale. Penso all’Autorità portuale, e dunque ai traffici marittimi, all’ente Fiera, di cui la commissaria della Camera di commercio ha appena deciso la soppressione saltando a piè pari ogni progetto di rilancio, insieme con il rilancio però della stessa Camera di commercio, che deve essere un polmone vitale per l’economia cagliaritana e sarda, in una logica di mercato aperto, di transazioni commerciali a largo raggio, di promozione di scambi con mercati nuovi… Il Comune dov’è? Non si sa. In un suo libro del 1999 Paolo Fadda scrisse che l’ente Fiera avrebbe dovuto cambiare radicalmente i suoi indirizzi operativi: sono passati quasi vent’anni e nulla è cambiato, fino alla delibera di soppressione, che forse crea nuovi disoccupati… Si liquida la Fiera per vendere quei terreni che valgono oro? La Fiera internazionale della Sardegna è un bene cui non possiamo rinunciare. A Milano, a Bologna, a Napoli con la mostra d’Oltremare, a Bari con la fiera del Mezzogiorno, ovunque le mostre-mercato, le fiere espositive delle nuove produzioni, ora anche informatiche, conoscono nuove stagioni di sviluppo, e noi? Proseguiamo nella decadenza, decade la Fiera, decadrà l’Aeroporto, decadrà la stessa Area industriale? Il Partito Democratico è ovunque, e ovunque vedo rinunce a creare il nuovo».
Non sarà soltanto colpa del PD…
«Lo stato di fatto è di arretramento. Si tratta di sviluppare idee produttive, diventare un soggetto collettivo che con le sue università, i centri di ricerca, il CRS4, con tutto quello che è il sistema delle intelligenze, possa fare di Cagliari e della Sardegna intera un polo vitale, che sa relazionarsi con il mondo e con il tempo nuovo che avanza. Non possiamo puntare soltanto, come fa Massidda – per vent’anni in Parlamento, allineato al peggio che la politica italiana ha prodotto dalla fine della guerra in qua – , sulla speranza di investimenti stranieri, occorre promuovere nuovi rapporti con la scena nazionale e continentale, con Roma e Bruxelles… Non possiamo credere che gli arabi del Qatar oppure i cinesi o gli altri capitalisti del mondo vengano da noi per pura simpatia, per beneficenza: vengono per fare i loro interessi, e bisogna che noi ci si attrezzi a valutare se questi loro interessi siano compatibili con i nostri. Per fare questo è necessaria una classe dirigente all’altezza, non soltanto una classe politica, ma anche una tecnocrazia capace però di rispondere alla politica, direi alla democrazia, che è la sede degli interessi generali. Mi pare centrale la riforma e il rilancio della nostra Camera di commercio e in generale delle Camere di commercio, meglio integrandole fra loro in chiave insieme di rappresentanza degli interessi diffusi e di promozione dello sviluppo economico».
La dimensione internazionale di Cagliari capitale
Ritorna qui il tema del rapporto fra Cagliari capitale della Sardegna e il territorio regionale nella sua complessità e varietà di vocazioni, di interessi, di realtà anche sociali e culturali. Come entrano le questioni dell’autonomia speciale, istituzionali cioè, in questa grande partita dell’economia in movimento?
«Il Consiglio regionale ha discusso e approvato di recente la legge sul cosiddetto riordino degli enti locali, cercando di corrispondere agli input italiani che vanno per l’abolizione delle province e l’impianto, invece, delle unioni dei comuni, secondo la logica di coordinare meglio, e a costi abbattuti, la gestione dei servizi pubblici. In linea di principio non contesto l’utile che ne potrà venire, certo è che in questa riforma nata da mille compromessi, e nonostante ciò anche da mille strappi – nel senso che ampie aree politiche non hanno condiviso il risultato –, si è collocata l’istituzione dell’Area metropolitana di Cagliari, che ha determinato diffidenza e contrarietà dei territori del centro e nord dell’Isola. Si accusa la Regione di aver premiato Cagliari facendone pagare il prezzo al Nuorese, al Sassarese, insomma squilibrando ulteriormente i territori: alcuni facendoli poli attrattivi di investimenti e di cure amministrative di ogni genere, altri emarginandoli».
Ed è vero?
«Intanto osservo che l’Area metropolitana avrebbe dovuto imperniarsi sulla continuità del costruito, e questo con Cagliari avviene soltanto in parte. Bisogna evitare che, a fronte di questa promozione, vi siano territori penalizzati, marginalizzati. In questo senso, per entrare nel merito delle accuse di “ingordigia” cagliaritana, ho scritto ai sindaci di Oristano, Nuoro, Olbia e Sassari: sono loro che hanno puntato il dito contro “la classe dirigente cagliaritana” avversaria degli interessi dei propri territori. Ho scritto loro che hanno argomenti solidi, che bisogna trovare una composizione fra interessi diversi, non emarginando nessuna delle 377 realtà comunali oggi esistenti in Sardegna: sappiate che una parte della classe politica cagliaritana è solidale con voi nella istanza del riequilibrio territoriale. Confrontiamoci sul “come”, usciamo dalle beghe nominalistiche perché sono sterili».
Risposta?
«Non ho avuto risposta. Alla fine credo che il collante di partito – del PD un’altra volta ancora – funzioni da deterrente a qualsiasi azione politica effettivamente riformatrice».
Insomma, al rischio di una Sardegna divisa e duale nella realtà bisogna rispondere con un progetto complessivo regionale, favorito dalla insularità che, proprio per se stessa, dovrebbe essere un motivo di unità. Ho capito bene?
«Alla fine il discorso è questo: il riequilibrio territoriale della Sardegna è premessa ed obiettivo di un progetto politico, o politico-istituzionale che sostenga la soggettività. Se già noi, al nostro interno, continuiamo ad essere divisi ed a favorire le politiche di spopolamento e desertificazione a vantaggio della polarizzazione demografica nella sola area urbana, sarà come aver perso un’altra occasione».
E quindi?
«E quindi è urgente cambiare direzione e marcia. Un economista di formazione democratica come Stiglitz, americano premio Nobel nel 2001, già quindici anni fa aveva previsto che la moneta unica e il mercato unico avrebbero portato a un accentramento progressivo della ricchezza, oltre che delle infrastrutture anche del capitale umano, insomma al rafforzamento progressivo delle aree già forti e alla depressione di quelle già deboli. Stiglitz chiamò questo fenomeno “mezzogiornificazione d’Europa”. Ci siamo in pieno, in tutta Europa, e stiamo anzi marcando sempre più questo squilibrio, con gli eureka da una parte e i brontolii inutili e deresponsabilizzanti dall’altra. In generale, i territori deboli, anche in Sardegna, sono quelli che soffrono di più. Il salto di qualità che la classe dirigente sarda deve compiere, in questo contesto, è quello di considerare Cagliari e l’Isola come compresenti nel pacchetto Sardegna».
Questa riflessione non entra nelle teste, mi pare, né dei regionali né dei locali. Perché?
« Nel merito, avevo fatto notare qualcosa di simile anni fa, scrivendo sul fondo europeo per le politiche regionali[http://www.enricolobina.org/wp/2014/08/03/sardegna-il-fondo-europeo-di-sviluppo-regionale-e-le-aree-rurali/]: stabilire armonie fra aree urbane e aree rurali per fare della Sardegna un sistema articolato ma coerente spetta a noi. Continuo a ripetere: le molte anime della classe dirigente sarda, anime politiche e anime territoriali, debbono riconoscersi reciprocamente. La Sardegna ha bisogno di tutti».
Forse la risposta ai perché di quel ritardo è anche nel collante politico-partitico costituitosi oggi in capo al PD trasformatosi di fatto in quel che chiamano “partito della nazione”, insomma un partito maggioritario trasversale rappresentativo di tutto e del contrario di tutto, che le mediazioni e compensazioni le fa al proprio interno, affacciando le linee di un cattivo regime (dopo quello democristiano, quello democristiano-socialista e quello berlusconiano). Naturalmente tutto questo a fronte della permanente inadeguatezza elaborativa sia della minoranza interna dei democratici che della cosiddetta opposizione priva di passione civica. Ma è questa una opinione personale di un lamalfiano senza più partito.
L’Area metropolitana
In quanto livello funzionale-amministrativo, l’Area metropolitana è al debutto adesso, ma in quanto alla dimensione economica e sociale è una realtà esistente e già consolidata…
«Sono d’accordo. L’istituzione dell’Area metropolitana deve favorire l’integrazione senza appiattire le diversità culturali, sociali od economiche. Quel che ho cercato di dire prima è che la legge Renzi-Del Rio e quella regionale sul riordino generale degli enti locali esprimono una lettura autoritaria e verticistica che non apprezzo. Questo autoritarismo è fatto proprio e senza alcuno spirito critico, a Cagliari, da Zedda, che mi sembra un perfetto esponente di quel “partito della nazione” che – concordo – è, ormai, il PD e che nascerà in via definitiva con le prossime elezioni comunali. La convergenza di esponenti del centro-destra verso Renzi a Roma e verso Zedda a Cagliari mi pare la dimostrazione di questo».
I progressisti sardi si rassegnano al “partito della nazione”?
«Non lo so, io sono contro il “partito della nazione”, che inizia a somigliare – concordo anche su questo – a un partito di regime. Una melassa, una convergenza banale di interessi egoistici di categoria e forse anche personali: verso il PD e verso la giunta Zedda o la giunta Pigliaru, per restare in Sardegna, ho visto genuflettersi una certa intellettualità (per esempio quella universitaria, quella rappresentata da qualche ordine professionale, quella sanitaria perfino) e una certa borghesia, come quella dell’Associazione Industriali, o quella di certi rami delle rappresentanze di categoria».
Sembra la rappresentazione di quella che fu, centosessant’anni fa, al tempo dell’unità d’Italia, la camarilla cagliaritana. Municipio, Tribunale, Deputazione, Burocrazia pubblica – forse mancavano i privati dell’imprenditoria – , tutto un intreccio di interessi, e la stampa in parte era coinvolta nell’impasto, non denunciava, non aveva l’ambizione di essere quarto potere, anzi era al servizio della causa partigiana. Lo fu all’inizio la “Gazzetta Popolare” del Sanna-Sanna, poi anch’essa entrò negli affari e nel regime.
«Non sono per la dietrologia, però osservo proprio un clima da camarilla in città, come fu quella dell’Ottocento. Ho letto in qualche libro di storia che fu denunciata dal giovane Cocco Ortu, allora spirito critico dell’establishment cagliaritano. Poi, invecchiando, fu lui stesso leader di cordate. A me dispiace, ma è così anche oggi: il rettore che il 21 marzo scorso sfila per la città con Zedda non mi ha fatto una buona impressione. Così come questo accalcamento sul PD da parte di tanti medici, soprattutto dagli ospedalieri, dal settore cioè che gestisce ingenti risorse pubbliche e costruisce tante carriere».
Restiamo sull’Area metropolitana. Pirri è un ponte fra il capoluogo e il territorio provinciale ricadente nel bacino d’area. E’ superato ogni interesse all’autonomia?
«Nel 2011 a Pirri si votò con due schede, una per il Consiglio comunale di Cagliari e l’altra per la sua Municipalità deliberata da una legge regionale. Si trattava, in linea teorica, di un riconoscimento di larghi poteri all’organo assembleare elettivo. Se da una parte la Municipalità pirrese non ha saputo sfruttare le opportunità che il nuovo quadro istituzionale le concedeva, dall’altra l’apparato politico-amministrativo di Cagliari non ha fatto nulla per dare regolamentazione concreta alla Municipalità. Oggi comunque anche la realtà pirrese, in rapporto a quella amministrativo-economica di Cagliari, va vista nel quadro dell’Area metropolitana che sta prendendo corpo».
Conosco anch’io Pirri. Sono trentamila residenti che si sentono un po’ fratelli un po’ cugini dei cagliaritani. Per secoli Pirri è stato un comune autonomo, si sa. Alziator ricorda Pirri come località agricola di riposo nella tarda primavera, dopo la festa di Sant’Efisio. La sua famiglia, per il filone materno (quello stesso di Efisio Marini il magico pietrificatore dei cadaveri), aveva delle proprietà… Dalla casa di piazza Italia aveva assistito ai balli sardi anche il principe Carlo Alberto, la volta che venne in Sardegna nel 1829… Giusto cento anni dopo, nel 1928 cioè, il regime fascista conglobò tutti i comuni dell’hinterland nel capoluogo, facendone delle frazioni. Dal 1947 al 1983, al 1989 al 1991, una dopo l’altra le frazioni si sono riprese la loro autonomia, cominciando da Selargius, ed a seguire Quartucciu, Elmas e Monserrato. Anche a Pirri si sono accese tempo fa alcune pulsioni autonomiste, ma forse la volontà di farsi comune a sé non è mai stata così forte e decisiva.
«Oggi abbiamo la Municipalità di Pirri, abbiamo il Comune di Cagliari, abbiamo l’Area metropolitana che sta prendendo corpo. Dobbiamo mettere insieme queste tre realtà perché ognuna di esse valorizzi le proprie potenzialità e le proprie risorse, ed alla cittadinanza ne venga una qualità dei servizi pubblici la più alta possibile a costi compatibili. Pirri ha una sua individualità, che secondo me è un valore in sé: ha sue peculiarità storiche nella economia, soprattutto nella agricoltura vinicola, nelle sue piccole industrie in collegamento ora con l’agricoltura ora con l’edilizia – ricordo Amsicora Capra, i Zedda Piras, i Rocca, ricordo la vetreria –, ha una sua propria architettura e un impianto urbanistico autonomo da quello cagliaritano; ha sue proprie tradizioni anche religiose, ricordo Santa Maria Chiara. L’appartenenza a Cagliari non ha giovato, purtroppo, alla crescita civile e sociale di Pirri, che è stata una cenerentola. Vedremo se la realtà dell’Area metropolitana possa riequilibrare i territori nella considerazione degli organi di governo. Io non ho grande fiducia, perché non si tratta soltanto di “chiavi istituzionali”, si tratta di volontà politica».
La democrazia partecipativa è una possibilità, non un’utopia
La relazione cittadino-istituzioni rappresenta, a mio parere, il centro di una sana democrazia, perché richiama insieme molti concetti, da quello della imparzialità della pubblica amministrazione o della effettività della rappresentanza a quello della partecipazione attiva fra turni elettorali periodici, richiama l’interesse stesso della politica ad assumere suggerimenti che dalla società sparsa, dalle competenze e dalle esperienze, possono venire per il bene comune.
Da molti anni a questa parte, un limite forse di sempre della nostra democrazia si è andato accentuando, fino ad assumere i connotati di una vera e propria patologia. I costi della politica sono un aspetto, un aspetto grave, di questa patologia che ha l’immagine sgradevole della casta, per cui non sono distinguibili nel fare concreto gli uomini espressione di un’area progressista da quelli che riflettono culture conservatrici e retrive. Nella casta il PD pare oggi il soggetto principe che specchiandosi riflette il volto di un qualsiasi apostolo forzista, sardista magari nazionalitario, neodemocristiano, parafascista, che pena! Gli emolumenti per favorire il reinserimento professionale di chi non ha mai lasciato la professione, le pensioni perfino a chi ha fatto il male delle casse pubbliche ed è stato sanzionato dalla giustizia, a parte l’entità di indennità mensili e di carica, le diarie degne di realtà scandinave o magari di sultanati arabi… sono stati per lunghi anni argomento tabù, scambiato per deriva populista e qualunquista. Gli abusi oggi al giudizio dei tribunali, sia quelli contabili che quelli penali, sono figli di queste generosità che il ceto politico ha concesso a se stesso caricandone l’onere alla collettività. Senza distinzioni, sinistre come berlusconiani. Il sindacato si è accodato, pure esso ha le sue aree castali, di privilegio, alla faccia degli iscritti.
«Sono convinto anch’io che la sinistra, anche Rifondazione Comunista e le altre formazioni della sinistra radicale istituzionale, abbiano sottovalutato questo aspetto degenerativo della democrazia italiana e anche regionale. Perché il nostro Consiglio regionale non ha nulla da invidiare, in quanto al peggio, al Parlamento di Roma. Gli aspetti del costo della politica dovrebbero essere al centro di riflessioni perché poi, s’è visto, e lo capisco bene e anzi lo condivido, queste abnormità si sono accompagnate a una produzione legislativa o amministrativa per lo più scadente. E qui io penso non possa procedersi per aggiustamenti, per microrettifiche regolamentari. Vanno rivisti in senso restrittivo, di maggior austerità e severità nella spesa per il funzionamento degli organi di rappresentanza ed amministrazione attiva, anche i regolamenti, ma quel che importa soprattutto è di affermare una cultura diversa del servizio politico. Il modello, secondo me, è quello fascinoso di Peppe Mujica, già presidente della repubblica dell’Uruguay. Era stato guerrigliero contro la dittatura fascista e militare, era stato leader politico rivoluzionario, poi – al ritorno della democrazia – parlamentare e ministro, infine anche capo dello Stato. Vive quasi con niente, il suo appannaggio è formalmente girato per la massima parte a organizzazioni non governative di solidarietà popolare, ha rinunciato ai benefits della carica di ex presidente, va avanti con mille euro al mese, nella sua casa alla periferia di Montevideo. Ecco, io dico che è un modello, un riferimento».
Un esempio anche ai nostri uomini della politica, ma non credo che ne terranno conto.
«Quel modello mi affascina. Perché poi la società stessa, nella sua organizzazione concreta, possa recuperare quelle risorse morali, quella forza di volontà che serve per avere infine i risultati, la soluzione dei problemi concreti. E’ necessario che tutti, a cominciare dai rappresentanti la volontà popolare, cominciando cioè dagli uomini pubblici, dagli esponenti delle istituzioni, recuperiamo uno stile di vita associata sobrio e un senso effettivamente comunitario. Mi riferisco adesso proprio a quelle che si chiamano le “politiche di comunità”, che sono una cosa concreta, che prefigurano un assetto organizzativo nuovo e diverso della società inclusiva, come l’abbiamo chiamata. E’ quanto si potrebbe realizzare anche da noi, a Cagliari. Si può».
Si può se si vuole, ne sono convinto. E’ lì che anche io accetto il concetto di autodeterminazione, fuori dagli ideologismi nazionalitari, di un etnicismo ai limiti del razzismo senza capo né coda.
«La politica di comunità è una politica che recupera il rapporto con l’ambiente, con la natura, rispettandola e valorizzandola nell’interesse di tutti. Vorrei darne delle esemplificazioni concrete, ma vorrei prima di tutto fare una osservazione che, secondo me, collega bene il “fare” al “chi” sia il soggetto collettivo – intendo la nuova classe dirigente – che ha la responsabilità di proporre ed attuare il programma del “fare” secondo la logica comunitaria. Ecco, dico questo: se guardiamo alla Sardegna d’oggi, troviamo in moltissimi comuni degli amministratori – sindaci, assessori, consiglieri – giovani e talvolta giovanissimi, venticinquenni, trentenni, uomini e donne che hanno deciso di mettere al servizio della loro comunità una parte rilevante del loro tempo, delle loro energie, tutta la loro passione e l’amore al paese, vissuto come luogo in cui sono le loro radici familiari, le loro esperienze formative, le loro prime e fondamentali relazioni sociali…».
E resistono in prima persona alle provocazioni dello spopolamento che incombe come una minaccia, e resistono talvolta anche alle intimidazioni dei balordissimi…
«Perfetto. Li abbiamo visti resistere a incomprensioni e perfino ad attentati, a mille difficoltà amministrative, di gestione del loro territorio assediato, anche per la pochezza del bilancio, ora da incendi ora da alluvioni, ora anche da atti banditeschi… Ne ho conosciuto molti, di tutte le provenienze politiche o ideali, cattolici e laici, moderati e di sinistra, direi anche di diversi livelli culturali e di diversa pratica professionale, hanno a cuore soprattutto il bene delle loro comunità. E si sono presentati alle elezioni quando dai più, forse, si mirava a disertare l’appuntamento: niente liste, avanti ancora con i commissari prefettizi, oppure niente partecipazione al voto. Do un giudizio che è di sintesi, che forse è soltanto una impressione, ma io sono colpito da queste decine e decine di amministratori locali non professionisti della politica, al servizio della loro comunità, che si sforzano di portare avanti idee nuove, di promuovere l’associazionismo, di mobilitare i giovani – spesso loro coetanei – che magari fanno i pendolari, per studio o per lavoro, con Cagliari o qualche città della loro provincia, o si sforzano di introdurre elementi di dinamismo che superino l’indolenza o la passività di cui ho detto prima. Hanno indennità da niente, poche centinaia di euro al mese, il loro lavoro non è stipendiato, è vero e proprio volontariato, e gli impegni sono gravosi davvero. Non m’importa, sul piano amministrativo, il loro colore politico, perché so che è altro che prevale in loro: una generosità nel servizio. E li immagino come la nuova classe dirigente della Sardegna, una classe dirigente che sta imparando ogni giorno di più l’arte difficile della rappresentanza e della amministrazione, e questa esperienza potrebbero portare poi ai livelli superiori, di territorio più vasto, nelle unioni dei comuni, alla Regione, scalzando tanti onorevoli incapaci, a destra come a sinistra o al centro. Maturando questa loro esperienza, essi matureranno inevitabilmente una sensibilità che li porterà a vedere i problemi delle loro comunità sempre più in un contesto maggiore, fino a saper inquadrare la Sardegna come sistema sociale-economico, con la sua specificità anche culturale, non di razza s’intenda bene, nella realtà vasta italiana ed europea, senza subire gratuite marginalizzazioni. Non subendo il peggio e snobbando il meglio che ci viene proposto, perché questo è quello che poi avviene molto spesso: subiamo le politiche di sacrificio di tante nostre risorse agricole o agro-alimentari e snobbiamo le politiche di preservazione ecologica, in materia per esempio di riciclo dei rifiuti, come è avvenuto di recente con la delibera della nuova discarica di Uta, approvata dal Consiglio comunale di Cagliari, mentre il sindaco Zedda ha guadagnato furbescamente la fuga…».
Le politiche di comunità
E andiamo dunque alle “politiche di comunità”, un modo nuovo di dare contenuti alla politica e alla organizzazione sociale. Come in concreto?
«Credo che partendo dalla politica sociale si possa innovare la politica in qualsiasi altro campo. Ma ci voglio arrivare con gradualità. Ho accennato al riciclo dei rifiuti, perché nei rifiuti possiamo trovare una fonte di energia pulita utilizzando le tecnologie più avanzate, a inquinamento zero. Alla recente conferenza di Parigi fra le cinque aree che rischiano maggiormente in Europa purtroppo è stata individuata anche l’area di Cagliari. La scelta recente di localizzare una nuova discarica a Uta aggrava la situazione. Invece noi dobbiamo puntare, nel decennio, cioè al 2025, ad un risultato zero in quanto a emissioni di anidride carbonica. Ma dobbiamo puntare a sviluppare le fonti energetiche alternative – sole e vento – difendendo l’ambiente, rispondendo ai cambiamenti climatici in corso, creando nuovi posti di lavoro qualificato. Dobbiamo mettere in agenda urgentemente un Climate Action Plan: finirla con l’energia da fossile, puntare sull’energia naturale. In questo senso va ripensato tutto il sistema dei trasporti: dobbiamo sviluppare il trasporto pubblico e quello a due ruote. Credo che nel decennio avremo una certa diffusione anche di auto elettriche, come in Norvegia, dove ogni strada ha la sua colonnina. Dobbiamo cambiare i paradigmi rispetto a quelli proposti da Pigliaru e Zedda: il metano era risorsa strategica ancora vent’anni fa, non più oggi. Il mercato energetico italiano ed europeo è cambiato e dobbiamo prenderne atto in fretta. Nell’ottica della competizione globale, si tratta di puntare sulle nuove tecnologie, mettere insieme le conoscenze, non limitarsi alla raffinazione del petrolio. Dobbiamo utilizzare l’area industriale di Macchiareddu per la meccanica, per la produzione di manufatti e di beni per i quali possano utilizzarsi le fonti energetiche alternative».
Di recente si sono tenute in Sardegna varie manifestazioni di presentazione di start up e di idee innovative, numerosi giovani ingegni hanno mostrato le potenzialità di sviluppo della nostra economia.
«Sì, in questo c’è stato un contributo positivo della nostra università, fra tanti limiti emerge anche qualche eccellenza. Mi riferisco al Contamination Lab. Queste innovazioni dovrebbero riguardare anche la politica comunale».
In che senso?
«Ho accennato prima alle politiche sociali, finora gestite in chiave piuttosto assistenziale. L’editore Marsilio ha pubblicato un libro collettaneo, con un mio saggio sulle politiche sociali cosiddette “di comunità”, che ben potrebbero essere adottate anche da noi. La filosofia di fondo è che il singolo in difficoltà, la famiglia in difficoltà – quale che sia la difficoltà, materiale o morale – trova sostegno all’interno della sua prima comunità di riferimento: il condominio, il quartiere, la città. Cosa avviene oggi: assistenza a pioggia, denari erogati a questo o a quello secondo criteri forse non tutti perfetti. Poi si controlla la spesa? Sappiamo noi se quelle risorse passate dalle casse pubbliche al cittadino che denuncia il suo bisogno sono spese per sovvenire quel bisogno e non, per dirne una, per l’alcol o magari per la fortuna del gratta-e-vinci? L’Amministrazione, l’assessorato ai servizi sociali, le assistenti sociali, esauriscono il loro compito con l’istruttoria e la concessione di qualche centinaia di euro? Dov’è l’impegno a seguire, ad affiancare chi è nel bisogno e talvolta non è in grado di gestire in proprio il soccorso? Certo l’obiettivo è sempre quello di favorire l’emancipazione dal soccorritore, di favorire cioè un livello di autonomia dell’utente-beneficiario, che è anche rispetto del suo status di cittadino, ma nel concreto tante volte questo non è possibile, e comunque non si fa. Bisogna lavorarci».
Ne abbiamo già parlato. In questo campo specifico dell’assistenza sociale destra e sinistra si somigliano, cercano sempre la via più facile per scaricarsi il problema ricorrendo all’elemosina comunale.
«Esatto».
Come reimpostare la politica di intervento sociale?
«Faccio un caso di politiche sociali di comunità che l’Amministrazione municipale dovrebbe incoraggiare: il “condominio sociale”. Sappiamo che si è esteso in misura impressionante il fenomeno della cura alla persona da parte delle badanti soprattutto dell’est europeo. Forse sono pagate meno del dovuto, anche se trovano certamente una convenienza, rispetto alle condizioni di vita nel loro paese. Però anche quel salario che è loro pagato ogni mese è un sacrificio qualche volta molto pesante per gli anziani che sono accuditi: si svuotano completamente le pensioni, debbono intervenire i figli che qualche volta hanno anch’essi problemi in famiglia, situazioni di disoccupazione, spese eccezionali non rinviabili ecc. Ecco qui l’idea: non cinque ma due, tre badanti per più anziani in uno stesso condominio, organizzandosi meglio il tempo dei servizi, delle pulizie, dei pasti ecc., magari anche favorendo la socializzazione fra gli anziani accuditi. Il risparmio in capo a ciascuna famiglia potrebbe in parte alleggerire i bilanci e in parte potrebbe andare a migliorare la paga delle assistenti. Si tratta di organizzarsi».
Ma in questa logica si potrebbe pensare anche a mense e cucine di comunità, a piani sociali del cibo, o no?
«Certamente. In parte, certe associazioni di volontariato già lavorano in questo senso, recuperando da supermercati i prodotti quasi in scadenza, ma si tratta di migliorare la gestione degli avanzi da ristoranti e comunità ospedaliere, ecc. L’obiettivo è: zero spreco. Una città che sviluppi il senso comunitario – se anche l’Amministrazione pubblica fa la sua parte, accompagnando questo sforzo di educazione collettiva – può contare su queste microrealtà partecipanti e responsabili, che sanno autogestire alcune linee di consumo, oltreché di vita associata. Nessuno sarebbe lasciato a se stesso, il Comune avrebbe “antenne” in ogni palazzo, avrebbe il polso di ogni suo residente, assorbirebbe le dinamiche negative presenti in molte famiglie».
L’invecchiamento sta diventato una emergenza. Il Comune di Cagliari se ne è accorto?
«Direi di no, per quanto ne sappia. D’altra parte una politica sociale complessiva che definisce la inclusività piena dei residenti nel territorio comunale, eviterebbe marginalizzazioni anche degli anziani come dei poveri. Mi riferisco alla politica abitativa, in primo luogo. Un campo nel quale le scelte politiche di Zedda sono state prossime allo zero. Lui ha guardato semmai ai palazzinari, ai costruttori, ai proprietari. Ho forse già detto che il patrimonio pubblico del Comune di Cagliari è di 6.500 case popolari, la metà comunali l’altra metà di proprietà di Area, l’ex IACP. Si faccia qualche giro nei quartieri di Is Mirrionis, di San Michele, magari al Favero di Sant’Elia… un disastro colossale. E invece la politica sociale di comunità potrebbe prevedere interventi proprio nel recupero materiale di stabili abbandonati e suscettivi di diventare alloggio per famiglie senza tetto: in cambio del lavoro prestato nei cantieri, integrati in qualche modo nelle imprese edili, oppure del lavoro prestato per la manutenzione ordinaria o straordinaria dei palazzi già abitati, si potrebbero offrire nuove opportunità alloggiative, o sconti nelle pigioni nel caso di abitazioni già utilizzate… Si potrebbero riconvertire o ristrutturare, a Cagliari, milioni di metri cubi inutilizzati».
Si parla, di tanto in tanto, di dismissioni o svendite anche di immobili regionali, ma tutto è, mi sembra, improvvisato, slegato ad una politica coerente di territorio.
«La Regione mi risulta stia svendendo appartamenti in via Bainsizza: con l’“autorecupero” invece si potrebbe dare una casa a varie famiglie, il contributo di lavoro dei candidati-inquilini porterebbe ad un abbattimento dei costi. Un caso analogo potrebbe essere quello degli ex uffici Telecom, dove le condizioni fisiche sono ancora efficienti, con infissi funzionanti ecc. Sono idee generali, si possono studiare meglio questi e altri casi. Ma quel che deve essere chiaro è che la regia di tutte queste operazioni deve essere pubblica, deve essere del Comune, di un Comune che sappia promuovere comunità. Perché mai un’Amministrazione si chiama Comune se non lavora per promuovere uno spirito comunitario?».
Alcune idee: se si vuole, si può
Scopo di questa conversazione non è certamente quello di enunciare le formulette-spot di individuazione e risoluzione dei problemi che tutti abbiamo davanti agli occhi. Mi interessava piuttosto comprendere la visione generale della politica, tanto più riferita alla città, di un amministratore che si è distinto per le battaglie ideali – non importa se di minoranza – mai separandole, mi è parso, dalla concretezza del vissuto. Vorrei però tentare egualmente, al fine di non evitare anche il particolare del programma, una pur rapida rassegna di opinioni su questo o quell’aspetto della vita cittadina che comunque interessa tutti. Ci proviamo?
«Sono qui».
Città di mare, Cagliari è, per vocazione naturale, città di partenze e di arrivi, città ponte dell’Isola intera col mondo, città di commerci, di mediazioni. Negli ultimi decenni, avendo preso più matura coscienza dei propri potenziali, s’è data l’obiettivo di essere e presentarsi come città turistica, evidentemente non in una logica di nicchia ma di sistema, adesso specialmente con tutta l’Area metropolitana, in generale con il resto del territorio isolano. Siamo veramente tutti quanti dentro a questo progetto?
«Beh, Cagliari città turistica vuole dire intervenire sui trasporti (Ryanair e continuità territoriale), sulla formazione degli operatori, sui servizi e su un calendario di eventi variegato e di qualità. E’ chiaro che l’industria turistica deve avere uno sguardo largo nella sua offerta… L’università e gli istituti di formazione debbono avere un ruolo. E’ possibile che a Cagliari ci sia un istituto alberghiero, molto frequentato, senza una cucina?».
Il Poetto deve continuare ad essere spiaggia dei centomila residenti o deve diventare, in omaggio alle ambizioni, spiaggia di alberghi e di turismo?
«Credo che il Poetto debba essere vivibile e raggiungibile da tutti. Oggi risulta difficilmente raggiungibile e fruibile per le famiglie numerose. Io sono perché gli stabilimenti militari possano essere utilizzati da tutti, creando posti di lavoro, e sono anche per una netta riduzione dei volumi di cemento sulla spiaggia. L’ex ospedale Marino deve diventare un albergo, ed in prospettiva anche l’attuale ospedale, magari con target diversi».
Restando ancora nelle logiche dell’Area vasta, ecco le zone umide: a nord Santa Gilla, ad est Molentargius. Come farne insieme tesori naturalistici da preservare e compendi da valorizzare economicamente?
«A Santa Gilla nel 2004 erano più di 400 le persone che pescavano, in regola e con una prospettiva di vita relativamente tranquilla. Oggi sono poco più di cento. Santa Gilla è una miniera, dal punto di vista produttivo, occupazionale, ambientale e paesaggistico. Nessuno ha saputo valorizzarla. Noi abbiamo un progetto complessivo, che in quattro anni può far tornare la laguna ai livelli occupazionali di dieci anni fa, e farla avvicinare ad eccellenze europee, come lo stagno di Orbetello. A Molentargius, in cinque anni, si è riuscito solamente ad approvare le linee guida per la realizzazione del parco. Di ben altro ci sarebbe stato bisogno. Abbiamo personale di governo che farà di Molentargius una perla del Mediterraneo».
Tutto risolto con il demanio militare per le sue riserve cittadine?
«Grande tema. Posso dire adesso che le ex servitù militari, tutto il costruito non utilizzato di Cagliari, sono la leva per creare posti di lavoro, case per chi non ce l’ha, spazi sociali per chi ne ha bisogno. Bisogna coinvolgere il privato, e programmare un costante e consistente intervento pubblico».
Sui siti sportivi, pure essi di fruizione locale ma anche provinciale e regionale: intendo la nuova città sportiva attorno al progettato nuovo stadio Sant’Elia. Un’opinione?
«Sul Sant’ Elia e sul nuovo stadio faccio mio quanto segnalato da Giovanni Dore, consigliere comunale uscente, rintracciabile ai link http://www.giovannidore.it/index.php/?p=4341 e http://www.giovannidore.it/index.php/?p=4352».
Risposta tranchant che mi costringe a frugare in internet. Ne farò un’appendice.
Siti sanitari: il prossimo trasferimento dei reparti del San Giovanni di Dio al policlinico di Monserrato forse priverà il centro cittadino di un presidio sanitario, perfino del pronto soccorso. Sarebbe un bene questo?
«No. Una casa della salute, con la possibilità che negli spazi restanti si realizzi altro, è anche la mia proposta per il San Giovanni di Dio».
Circuiti culturali. Il trasferimento del diritto di stampa dalla Biblioteca universitaria, che è governativa, a quella regionale mi sembra che abbia impoverito la prima – ridotta ormai a pura biblioteca di conservazione – e non abbia arricchito la seconda. C’è un crollo sconcertante nel numero degli utenti in entrambe. Sembra un fenomeno positivo, per le opportunità anche ricettive, quello rappresentato dalla MEM. Come deve porsi il Comune rispetto alla domanda di cultura tanto più dei nostri giovani in formazione? C’è anche chi propone l’ex carcere di Buoncammino come centro archivistico e di studio.
«Cagliari Capitale Europea della Cultura ha perso perché non si è immersa nella cultura cagliaritana. Non esiste un progetto culturale per Cagliari, né questo esiste per la Sardegna, perché non si vuole decidere tra l’essere recettori provinciali di dinamiche italiane, o sprigionare autonomamente un portato culturale enorme, che vive nell’oggi, coi mezzi artistici, culturali e comunicativi dell’oggi. Le politiche culturali, inoltre, sono pensate per chi già usufruisce di cultura, non per chi non ne ha mai usufruito. E’ giustissimo, al contrario, concordare e sollecitare con le scuole e le amministrazioni statali la frequentazione da parte degli adolescenti delle scuole medie e superiori di musei, biblioteche, archivi ecc. Mi batterò sempre molto su questo punto».
Addendum sullo stadio e la nuova città sportiva
Ecco Giovanni Dore: «Con un tempismo mirabolante (meno di due mesi dalle elezioni), arriva in Consiglio Comunale la proposta di delibera che riguarda la demolizione e ricostruzione dello Stadio Sant’Elia, con annessi spazi commerciale e servizi, da parte della Cagliari Calcio S.p.A. Centinaia di pagine da esaminare e una nuova normativa da studiare (ed interpretare) in pochissimo tempo, per quella che, probabilmente, è l’opera pubblica più importante di Cagliari degli ultimi 40 anni (la precedente, forse, fu proprio lo stadio che oggi conosciamo).
«Sebbene la legge di riferimento sia relativamente “nuova” (L. n.147/2013), lo schema che la Cagliari Calcio S.p.A. propone al Comune è quello del c.d. “project financing” (introdotto in Italia dalla L. n.415/1998 c.d. “Merloni ter” e successive modifiche) e trova molte similitudini con quelle già utilizzate per la realizzazione dei nuovi stadi di Torino e Udine, con il Comune che cede il diritto di superficiesull’area pubblica per 51 anni (contro i 99 di Torino e Udine) e la società proponente che realizza l’opera, previa gara pubblica che può aggiudicarsi anche altro soggetto.
«La sostanziale differenza tra la ns. e le altre procedure è data dai numeri: a Torinoed Udine è stato quantificato un “prezzo” per il diritto di superficie (rispettivamente 25 e 21,5 milioni di euro, da noi 0) e non è stato offerto nessun contributo pubblico (a Cagliari, quello del Comune viene stimato in 10 milioni di euro; è poi previsto un intervento della SFIRS, attraverso altro meccanismo finanziario per altri 10 milioni). A Udine però è stata concessa una compensazione parziale tra costo totale dei lavori di demolizione e ristrutturazione con quella del citato “prezzo” che, a conti fatti, si è ridotto fino a 4,45 milioni di euro che entreranno nelle casse del Comune.
«L’altra particolarità è che, mentre a Torino è stata concessa una destinazione commerciale con numeri piuttosto simili a quelli proposti a Cagliari(c.ca 25 mila mq tra vendita, servizi, uffici, ecc.), ad Udine risulta che le attività consentite siano limitate a quelle di supporto all’attività del club (bar, ristornate, ecc.), poiché nell’accordo con la Società Udinese venne scritto che non erano ammissibili attività commerciali non connesse a quelle sportive in virtù dei divieti contenuti nelle normative urbanistiche vigenti. A Cagliari, oggi, vige lo stesso divieto e, pertanto, l’autorizzazione urbanistica per il nuovo stadio dovrà contenere obbligatoriamente una variante al P.U.C. ed una espressa autorizzazione della Giunta Regionale per le attività commerciali sopra i 10 mila mq (Grande Distribuzione).
«Veniamo infine ai ricavi che stimati dalla società proponente nel P.E.F. presentato al Comune. Si indicano in c.ca 4,5 milioni di euro all’anno, con macro voci principali costituite da: fitto stadio e Sky Box (€ 950 mila), fitto spazi commerciali (€ 1,7 milioni), cessione nome stadio (€ 900 mila). Il residuo (c.ca € 1 milione) arriverà da sponsor, bar, ristoranti ed eventi (concerti, ecc.). Ovviamente si tratta di ricavi, dai quali dovranno essere detratti tutti i costi per le manutenzioni, personale, ecc.[Le tabelle illustrative sono nel sito]».
Enrico Lobina e Gianfranco Murtas
Conclusione. Se ha un senso, non soltanto di suggestione, il parallelo fra il partito bacareddiano della Casa Nuova che cento anni fa innovò alla politica amministrativa di Cagliari modernizzando il capoluogo dell’Isola e facendone il traino dello sviluppo (troppo lento e incoerente) delle zone interne, ed il gruppo, numeroso, giovane e, fortunatamente, per niente omogeneo che cinque anni fa ha segnato una certa svolta, complessivamente positiva, rispetto agli indirizzi della destra qualunquista e senza nerbo morale di Forza Italia ed accoliti sardo-parafascisti, Enrico Lobina costituisce – è la mia opinione – una eccellenza. Lo dico con la franchezza di chi conosce le distanze ideali e politiche fra l’area mia, azionista e repubblicana, e la sua di derivazione marxista, fino agli attuali approdi nel sovranismo sardista. Ma nella stagione in cui tutti quanti siamo obbligati a rivedere criticamente, per aggiornamenti incisivi e coraggiosi, il proprio campo ideologico – mai quello ideale –, alcuni fondamentali della stessa propria cultura politica, gli accostamenti che guardano, sul piano etico e programmatico, all’oggi e al domani concreto della comunità che entrambi accoglie e chiama al servizio civico, non soltanto sono possibili ma sono forse necessari e ineludibili.
Nella sua disponibilità al confronto sempre, in questo suo offrire l’esperienza di studi e di vita maturata nell’accelerazione dei tempi moderni all’utile generale per fondare in esso la città inclusiva, Enrico Lobina fornisce, a mio giudizio, un positivo affidamento. Non è mai il numero che dà, per certo, ragione agli argomenti. Dopo tanto Delogu e tanto Floris, dopo la delusione sconfortante di Massimo Zedda, sarà per Cagliari quel che vorranno i suoi cittadini elettori. Lobina porta idee per Cagliari e sono idee che vengono da studio e riflessione e confronto. Non è certamente lui il solo virtuoso nella competizione elettorale, ve ne sono diversi altri (giovani e meno giovani) schierati con lui o presenti in aree politiche e in liste elettorali diverse e anche avversarie. Ma meritava un incontro. E di questo mi sento arricchito.