Lorenzo Tecleme è studente di Scienze della Comunicazione a Bologna, ma è nato e cresciuto a Sassari. Attivista di Fridays for Future, collabora con Jacobin Italia, Senso Comune e theWise Magazine.
Il movimento FFF, quello di Greta Thunberg, a Sassari è molto radicato, anche per via della sua attività, tanto che si era deciso di realizzare l’incontro italiano di FFF a Sassari ad aprile 2020, poi saltato per via del coronavirus.
Gli abbiamo fatto alcune domande.
Siamo entrati nella fase 2 della pandemia coronavirus, in Italia ed in Sardegna. Moltissimi hanno perso il lavoro e moltissimi lo perderanno. Che legame c’è tra i cambiamenti climatici ed il coronavirus?
La pandemia è iniziata quando il virus, già diffuso tra una o più specie animali, è riuscito ad infettare per la prima volta un essere umano. E’ il cosiddetto salto di specie, o spillover. Ancora non sappiamo con certezza in che contesto sia avvenuto questo salto, ma è acclarato che la devastazione degli habitat naturali crei le condizioni perché avvenga, e sempre più scienziati suggeriscono sia anche il caso del nuovo coronavirus. Malattie di questo tipo sono uno degli effetti collaterali di deforestazione e allevamento intensivo. Poi c’è la questione dell’inquinamento atmosferico: sistemi respiratori già indeboliti da smog e iqnuinanti vari – che ricordiamolo, fanno ottantamila vittime l’anno solo in Italia – sono più vulnerabili di fronte al virus, e questo ha contribuito ad aumentare i decessi tra i casi covid nel nord Italia.
Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: la lotta alla crisi climatica ed ambientale può tradursi in un volano straordinario per creare posti di lavoro ed evitare la nuova emergenza, quella economica. Lo diciamo noi giovani, lo dicono economisti come il premio Nobel Stigliz. Chissà che non se ne accorga anche la politica, prima che sia troppo tardi.
In Sardegna vi siete caratterizzati, come FFF, per il no al metanodotto ed alla richiesta di rinviare la chiusura delle produzioni energetiche basate sul carbone. Perché?
Perché lo chiede disperatamente la scienza, e con lei tutti noi ragazzi e ragazze. Il metano è un potentissimo climalterante, uno di quei fossili che sta inaridendo i campi, provocando eventi estremi letali, innalzando il livello dei mari, scatenando nuove malattie. Secondo l’IPCC – il massimo organo scientifico mondiale nel campo del clima – bisogna abbandonare le fonti energetiche non rinnovabili entro pochi decenni: un obiettivo chiaramente incompatibile con il piano di metanizzazione della Sardegna. Discorso analogo per il carbone, che è se possibile ancora più dannoso.
La strada è quella della conversione alle rinnovabili e, in contemporanea, dell’efficentamento energetico. E’ l’unico modo realistico per abbattere i costi in bolletta, interrompere la dipendenza dall’estero e, en passant, lasciarci un pianeta abitabile.
Cosa rispondi a coloro i quali affermano che il costo dell’energia in Sardegna è alto e che il metanodotto è la soluzione?
Che gli anni ‘60 sono passati. Il metano poteva avere senso decenni fa, ma oggi è una tecnologia vecchia, sempre più vicina alla fine (ricordiamo che l’Unione Europea intende abbandonare il fossile entro il 2050) ed esageratamente costosa. L’energia prodotta dalle rinnovabili è economica, e gli investimenti in questo campo creano il triplo dei posti di lavoro rispetto agli investimenti in petrolio, carbone e gas. Ritardare la transizione significa privare i sardi di migliaia di nuovi posti di lavoro.
A chi risponde “io devo mantenere il mio posto di lavoro”, anche con produzioni ambientalmente poco sostenibili, quali soluzioni proporre?
Partiamo dal contesto. I posti di lavoro stanno già sparendo: noi giovani emigriamo, le poche industrie sarde continuano a chiudere, persino il turismo rischia ora di entrare in crisi. Se non si interviene in fretta, a breve non ci sarà più niente da difendere.
La transizione ecologica salva al contempo il clima e l’occupazione. In primis creando nuovi e ben pagati posti di lavoro in tutti i settori – dall’edilizia all’energia, dalla ricerca all’agricoltura, dai trasporti al commercio – con tutto quello che consegue in termini di rimessa in moto dell’economia. E poi evitando che il riscaldamento globale porti via il lavoro che già esiste. Pensiamo ad esempio all’agricoltura. Il 31% della nostra isola è a rischio desertificazione: immagina cosa comporta per tutte quelle famiglie che dipendono dal lavoro nei campi.
In tutto questo, cosa fare per quegli impianti che dovranno necessariamente chiudere, penso ad esempio alla centrale a carbone di Fiume Santo? Abbiamo due opzioni.
La prima è aspettare che se ne occupi il mercato: probabilmente la proprietà tirerà avanti ancora qualche anno e poi, quando non gli converrà più, manderà tutti a casa. E’ un modello già visto altrove in Europa, e non è mai finito bene per i lavoratori.
Il secondo è che lo stato se ne faccia carico. La centrale si chiude il prima possibile e, contestualmente, si investe massicciamente nelle rinnovabili. Il saldo tra i posti di lavoro persi e quelli guadagnati sarà nettamente positivo, e la collettività si assicura che tutti i lavoratori della centrale siano formati e ricollocati, senza lasciare nemmeno una persona a casa.
Ultimamente ti sei occupato di politica internazionale, dal MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) all’Ecuador. Che legami vedi tra la politica estera e la vita di tutti noi, ogni giorno?
In un contesto globalizzato e di forte integrazione europea quanto avviene fuori dai confini nazionali influenza profondamente la nostra vita. Le notizie che ci arrivano da Bruxelles, Berlino, Parigi vanno a incidere direttamente sulle mie possibilità di trovare lavoro, sul futuro del nostro welfare state, sul dibattito pubblico a cui assisteremo nei mesi (se non anni) a venire. Provare a raccontare al meglio quanto stia accadendo è un dovere per chi, come me, aspira a fare giornalismo.
Poi, tenere gli occhi aperti sul resto del mondo ti permette di scoprire idee, strategie, problemi che non sempre lo scenario italiano offre. Prendiamo l’esempio dell’Ecuador che hai citato: le nostre forze progessiste e radicali, io credo, avrebbero molto da imparare dalla stagione del populismo socialista latinoamericano.
Cosa pensi del MES? L’Unione Europea si può modificare?
Mi sembra che l’Unione Europea si stia impegnando duramente per farsi detestare anche dal più convinto degli europeisti. Che persino nel mezzo di una pandemia si cerchi di farsi lo sgambetto a vicenda è grave; che si continui a parlare di “solidarietà”, e non invece di eliminare limiti iniqui che alcuni paesi membri impongono, è ancora più grave. L’Unione a riformabile? Non lo so, di sicuro non senza un certo livello di conflitto. Registro che quando ci provò la Grecia di Tsipras si arrivò a qualcosa di simile ad un colpo di stato.
Bisogna salvaguardare quanto di buono è stato fatto – l’Erasmus, alcune importanti legislazioni ambientali – ma anche e sopratutto aprire una riflessione su quanto non stia andando, senza pregiudizi. I vincoli di bilancio imposti dall’Unione, per farti un esempio, sono difficilmente compatibili con l’enorme piano di transizione che Fridays chiede.
L’economia non è il mio campo di studi, e lascierei che sia chi è più esperto di me ad entrare nei dettagli del MES. Certo è che questo strumento ha una storia pesantissima sulle spalle, e la contrarietà anche di esponenti politici ed accademici tutt’altro che radicali non fa ben sperare.
Cambiamo discorso, e chiudiamo. Pensi che la Sardegna abbia caratteristiche e bisogni diversi rispetto all’Italia? Il “diritto a decidere” dei sardi sul loro territorio è un tema fondato?
Esiste una specificità sarda, ed anche un’identità sarda. La risposta alla tua domanda è assolutamente sì. Ma la sensazione è che la consapevolezza di questo sia molto poco diffusa. Manca un soggetto di qualsiasi tipo – partitico, sindacale, associativo – che sia realmente radicato tra noi isolani. Ed è un gran problema.
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